Anche adesso che persino Urbano Cairo ha pubblicamente dichiarato di essere liberale, i liberali di vecchia militanza non sono contenti.
È un po’ nella loro natura, criticona e individualista. Ma è anche difficile dal loro torto, quando l’unanimismo è così diffuso da risultare sospetto.
Anche perché poi c’è anche il caso di un Marcello Pera che ha il merito scientifico di aver fatto conoscere Karl Popper in Italia, ma che si presenta con Giorgia Meloni alle elezioni. L’algebra liberale deve segnare un rilevante e scoraggiante -1.
Nelle mille chat liberali, sconosciute ma diffuse, si discute pertanto soprattutto di come far coagulare questo generale consenso potenziale, che sembra uscito da un marketing involontario, per dargli un senso politico, creando un innesco che rimedi ad un’assenza italiana francamente significativa, e grave, nell’intero panorama europeo.
L’8 ottobre prossimo, a Bologna, per meritoria iniziativa della “Scuola di liberalismo”, un tempo parte della Fondazione Einaudi oggi in altre mani, si ricorderanno, con relazioni accademiche ad alto livello i 100 anni dalla nascita del vecchio PLI, sbocco intempestivo del liberalismo risorgimentale, visto che mancavano solo 20 giorni alla Marcia su Roma.
Ma la storia è una cosa e la politica un’altra. A Matera, a giugno, un centinaio di liberali di tutta Italia si è riunito proprio per timidamente immaginare un ritorno in campo partitico. Si chiama per ora Forum Liberale e tenterà a dicembre una replica a Milano, ma nel frattempo ci saranno state le elezioni.
In vista di queste ultime, i segnali che si colgono in questa variegata famiglia molto malmostosa e strepitosamente presente in tutto l’arco partitico fanno vedere una prevalenza di favore per il Terzo Polo, segnale poco incoraggiante per i cosiddetti liberali di Forza Italia, che in questi lunghi anni berlusconiani hanno lì riposto la maggioranza relativa delle speranze e delle illusioni (oggi gli ex Pli restati col Cav si contano sulle dita di una mano).
Nel Terzo polo i liberali riconoscono a Matteo Renzi il merito di non aver mai esibito troppo la parola liberale, ma vedono in Luigi Marattin i tratti dell’economia liberale pragmatica e sana della tradizione einaudiana, e non è poco.
Incuriosisce di più però Carlo Calenda, che dà l’impressione di poter meglio rappresentare e riempire quest’area che altri indicano soltanto come un luogo che si autodefinisce.
Ma quando entra nei particolari, anche Calenda non convince fino in fondo. C’è uno sforzo di precisione e di coraggio che deve ancora fare. L’esegesi del posizionamento descritto da Calenda venerdì scorso a Milano è troppo a maglie larghe. Quando spiega che ha chiamato “Azione” il suo partito in onore dell’antico e sfortunato Partito della sinistra liberal socialista è più convincente, ma non copre tutte le sfumature. Gli si chiede di più.
Il leader di Azione ha raccontato a Milano i propri punti di riferimento e – ahi! – ha cominciato col popolarismo. Ma quale? Sospiro di sollievo: il manifesto dei liberi e forti di don Sturzo. Meno male, ma forse troppo facile, perché la storia del popolarismo è molto più articolata. I momenti di maggior successo li ha avuti con la versione cattopopolare di una sinistra ispirata dalla dottrina sociale della Chiesa, aperta al dialogo verso i comunisti. Nel popolarismo ci puoi mettere Alcide De Gasperi, ma anche Rocco Buttiglione, e se ti sposti in Europa ha virato a destra con Berlusconi e ora è appannaggio di Antonio Tajani. E non diciamo nulla sull’impronta importante di uno come l’ungherese Orbán.
Viene poi il repubblicanesimo, termine poco usato in politologia, e vien da pensare al PRI, ma Carlo Calenda vola più alto e cita Giuseppe Mazzini, con la sua dottrina dei doveri. Ottimo, ma un po’ lontano. Niente Ugo La Malfa, dispiacerà a Giorgio, che sostiene il terzo polo.
Infine, i liberali. C’è un quasi automatico riferimento a Carlo Rosselli, ma vedi sopra, ricorda qualcosa che non ha funzionato. E allora passa a Luigi Einaudi. Ma quale Einaudi? Quello delle “Prediche inutili”, e – tenuto conto della sterminata produzione del grande economista, forse era più utile trovare qualche pagina diversa. Ad esempio, in una fase di guerra ucraina e di contraddittorio successo del sovranismo in politica interna, l’invettiva di Einaudi contro «l’idolo immondo del sovranismo». Questa si che potrebbe essere una sintesi politica per l’attualità. Nulla più del sovranismo potrà far male all’Italia del 2022 e 2023.
Dunque, le definizioni del proprio liberalismo (perché non descriverlo come sinistra liberale? Sarebbe più semplice) ha ancora bisogno di essere meglio messo a fuoco. Scomodare Mazzini senza Cavour, il Pda senza Calamandrei, Rosselli utopista senza Valerio Zanone fondatore concreto dell’Ulivo, sembra un po’ poco.
Prendiamolo comunque per buono. È pur vero che avremmo bisogno di un’Italia col senso mazziniano dei doveri contro il “dirittismo” cui Alessandro Barbano ha dedicato di recente un libro. E che occorre insistere con certe prediche utili, visto che l’Italia adora Mattarella e Draghi, ma poi voterebbe il loro contrario.
Per convincere i liberali, Carlo Calenda ha fatto una cosa molto giusta. Ha messo Renew Europe nel simbolo. E così ci si può capire meglio.