Erano ormai mesi che l’ombra di una mobilitazione russa incombeva su ogni pronostico bellico. La decisione di Putin di richiamare alle armi 300mila uomini non è quindi una sorpresa, e anzi rappresenta forse la prima scelta razionale (se di razionalità si può parlare) presa dal 24 febbraio.
Il successo della controffensiva ucraina a Kherson e Kharkiv e il sostanziale prosciugamento del bacino di possibili “volontari”, dai mercenari di Wagner alle milizie locali delle repubbliche separatiste, ha infatti posto Mosca di fronte a uno scenario militarmente insostenibile.
L’ordine presidenziale firmato da Putin, che permette il reclutamento a oltranza di chiunque abbia svolto il servizio militare obbligatorio, indica il completo fallimento delle forze armate russe nel creare una riserva attiva di alta qualità.
La Boevoy Armeyskiy Rezerv Strany (Bars), che avrebbe dovuto contare su circa centomila effettivi regolarmente addestrati, esiste solamente sulla carta e si assesta su poche migliaia di unità, verosimilmente già impegnati al fronte. Al di là delle parole, chi sarà toccato dalla mobilitazione parziale saranno quindi per lo più civili e i giovani che attualmente stanno svolgendo il servizio di leva.
Che ruolo dovranno svolgere le malcapitate reclute? Gli invasori sono svantaggiati da una struttura organizzativa inadatta a supportare un intervento militare su larga scala. Trattandosi di un esercito semiprofessionale, molti degli effettivi contrattualizzati sono infatti militari in carriera che hanno raggiunto gradi da ufficiali, privando le formazioni di buona parte della “bassa manovalanza” fondamentali per la gestione di offensive terrestri. Nel modello delle forze armate russe, queste posizioni sarebbero teoricamente ricoperte dalle reclute richiamate per il servizio di leva ma finora escluse dall’”operazione militare speciale”.
Il risultato è che, al di là di alcune unità scelte, le forze di terra russe hanno sempre sofferto una penuria di soldati semplici, limitando il numero di effettivi delle unità appiedate e altri ruoli non-specialistici.
La mobilitazione è quindi sempre stata una precondizione per poter combattere una guerra regionale di media durata, specialmente se in zone urbanizzate. Le pesanti perdite fra le truppe corazzate sono l’illustrazione di questo problema: i carri armati sono stati gettati a capofitto in assurde schermaglie urbane, senza un adeguato supporto da parte della fanteria, perché spesso i russi mancavano di personale a terra adeguato a difendere le forze meccanizzate dalle imboscate ucraine.
Poter richiamare giovani in età di servizio militare, magari con un’educazione superiore, permetterà finalmente di portare le unità russe in Ucraina a piena capacità operativa e riempirle con personale di qualità più elevata rispetto ai criminali comuni e vecchi reclutati dal gruppo Wagner.
Detto questo, nonostante i commissari militari locali abbiano recentemente aggiornato le liste di proscrizione, la decisione su chi sarà effettivamente richiamato sarà gestita dai governatori militari dei diversi Oblast’ federali – una soluzione che potrebbe portare ad alti tassi di corruzione e imboscati provenienti dalle famiglie ricche.
Tutto ciò non significa naturalmente che la scelta di mobilitare fosse una tappa obbligata. Una gestione più oculata delle prime fasi dell’invasione avrebbe evitato inutili perdite, e la scelta di aprire un fronte più ridotto avrebbe forse permesso un utilizzo più efficiente delle unità a disposizione.
Ad oggi, molte delle vittorie ucraine sono determinate anche da enormi vuoti nelle linee russo-separatiste. In ogni caso, al di là della dimensione domestica di questa scelta, una mobilitazione seppur parziale rappresenterà una sfida immensa per le non brillanti competenze logistiche e organizzative della Difesa.
L’addestramento delle reclute, normalmente, è decentrato e affidato a ufficiali che, secondo aneddoti di aprile-maggio, sarebbero per lo più già impegnati nei combattimenti al fronte. Anche il ministro della Difesa Sergej Šojgu ha ammesso la mancanza di un sistema per implementare rapidamente la chiamata alle armi e organizzare l’inquadramento delle reclute.
Verosimilmente, l’addestramento di 300mila soldati non professionali richiederà dai tre ai quattro mesi, anche se nulla garantisce che Mosca preparerà adeguatamente le reclute e sarà in grado di fornire sufficiente equipaggiamento. Non è da escludere che il Cremlino ricorra alle recenti leggi che gli permettono di prendere controllo diretto dell’industria bellica.
Il dato forse più rilevante è l’elevato costo sociale e economico di una tale decisione è sempre subordinato a una prospettiva più olistica della situazione. Al di là delle sconfitte sul campo, ciò che conta è “la situazione politico-militare”, ovvero un’analisi della propria capacità di vincere un conflitto sia in termini militari che di coesione sociale e forza economica.
Questo è un calcolo separato dalla presunta minaccia alla sopravvivenza della Federazione Russa emanante dall’Alleanza Atlantica, a cui Mosca risponde con una logica di deterrenza di natura nucleare o non nucleare.
In poche parole, la decisione di mobilitare parte della popolazione indica che i russi probabilmente non si considerano attualmente in grado di vincere il conflitto: sei mesi di sanzioni e forniture di armi occidentali hanno irrimediabilmente degradato il potenziale militare russo e esposto il fianco a una perdita di coesione sociale e politica.
La mobilitazione parziale rappresenta quindi un ampliamento del proprio potenziale militare che, più che dissuadere Nato e Unione europea, prepara Mosca a una guerra di lunga durata e effettua un giro di vite ai danni della società russa. Questa sarà forse la più grande sfida per il Cremlino, che in 22 anni di regime putiniano ha sempre puntato sua depoliticizzazione della società e una indifferenza ideologica nei confronti del sistema.