Papa don’t preachLa logica bislacca dei pacifisti che incolpano gli ucraini di non essersi arresi

Si può discutere degli errori e degli (eventuali) orrori di cui possono essersi resi responsabili alcuni ucraini, ma non si può sposare la retorica del Cremlino col risultato di formulare un’accusa ribaltata, finendo per accusare chi resiste a un’invasione

AP/LaPresse

Ammettiamo pure che chi lo fa sia in buona fede, ma adoperare le parole del Papa opponendole alle pratiche peccaminose di un “partito della guerra” stanziato indifferentemente a Est e a Ovest di Kyjiv, significa svilire al rango di un dettaglio un dato di fatto che invece è eminente: e cioè che a durare ormai da molti mesi non è la guerra “in Ucraina”, come spesso la si chiama, ma la guerra “all’Ucraina”, come spesso si evita di chiamarla.

Il riconoscimento che la guerra sia stata cominciata da uno contro l’altro è il pegno che l’equidistanza pacifista si costringe, e nemmeno sempre, a concedere («Premesso che sono stati i russi ad aggredire…»), salvo trasformare quel riconoscimento in una specie di modo di dire, al quale non si annette nessun significato e nessuna necessità conseguente e anzi col risultato di pervertirlo in un’accusa ribaltata: premesso che han cominciato quelli là, la colpa è di questi qua e di chi li aiuta. Di questi qua: perché non si arrendono, perché resistono. E di chi li aiuta: perché li istigano alla guerra anziché alla pace.

E ammettiamo che sia in buona fede chi indugia sugli errori, ed eventualmente gli orrori, di cui possono essersi resi responsabili alcuni tra gli aggrediti, gli ucraini.

Discuterne si può (anzi si deve), ma a un patto, mi pare: vale a dire a condizione che discuterne non diventi il criterio in base al quale giudicare la guerra “all’Ucraina”, appunto trasfigurandola nella guerra “in Ucraina”.

Da quando è cominciata, c’è stata la corsa a investigare il tenore democratico e persino la dotazione morale degli aggrediti, una specie di scrutinio della presentabilità ucraina che, se non aveva l’intenzione, sicuramente aveva l’effetto di lasciare intendere che quella gente magari non se l’era cercata ma insomma non è che i russi bombardassero un popolo angelico. E questo è un fraintendimento, credo, capitale, che giudica la violenza di chi la fa in base al profilo di chi la subisce.

Coloro i quali, pur in buona fede, si appellano all’impostazione papale e si specializzano nell’investigazione delle colpe degli aggrediti, non possono non sapere che soltanto nel ripristino della verità è possibile distribuire le colpe.

Non possono non sapere da dove è venuta la metodica opera di contraffazione negazionista che sulla notizia dello stupro invitava alla cautela, perché c’è tanta propaganda, sulla notizia dell’ospedale bombardato raccomandava indagini, perché forse era un covo nazista, sulla notizia del centro commerciale incenerito reclamava accertamenti, perché tra le barbabietole e i cetrioli magari erano nascoste le armi dei servi della Nato.

Non possono non sapere che sulla notizia degli eccidi e delle torture che via via si vanno scoprendo nelle città e nei villaggi abbandonati dagli aggressori in ritirata, viene oggi il fiato mefitico di una teoria anche peggiore del silenzio: e cioè che anche questi sono i costi della guerra, una cosa da addebitare non alla responsabilità di quelli che l’hanno cominciata ma a quella di coloro che la subiscono, perché non si sono arresi. E a quella di coloro che li hanno aiutati a difendersi, i quali avrebbero dovuto lasciare che i massacri avvenissero nel trionfo della pace pacifista.

Senza riconoscere tutto questo, è difficile occuparsi con la doverosa attenzione delle parole del Papa e delle eventuali responsabilità singolari degli aggrediti.

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