Intanto, due file separate. Di là, quelle che ci hanno fatto sempre due palle col cinema francese, che – se adolescenti bolognesi – andavano al Lumière nelle sere in cui si proiettava Truffaut, mica in quelle in cui si proiettava Fassbinder (io sempre stata per il crucco, so che ci tenevate a saperlo).
Di qua, quelle che À bout de souffle non l’avrebbero mai visto se, nei rutilanti anni Ottanta, non l’avessero rifatto gli americani, e non ci avessero messo Richard Gere, il più incomprensibile sex symbol delle nostre giovinezze (anche: l’unico sex symbol eterosessuale di quell’epoca).
Appena è arrivata la notizia della morte di Jean-Luc Godard, una delle dieci volte a settimana in cui sospirare «Adesso il Novecento è proprio finito», il primo messaggio me l’ha mandato una persona saggia che pronosticava una giornata di rivolta cancellettista contro il patriarca cinematografico. A scommettere sulla scemenza della militanza instagrammatica non ci s’impoverisce mai, e infatti.
È stato un pomeriggio di meraviglie, in cui non ci siamo fatte mancare niente. Anna Karina ancella del patriarcato. I film topolini prodotti da quell’ego smisurato. E pure le accuse, alle femmine inadeguate, di non essere emancipate: metterete pure i cancelletti di vibrante sdegno contro il sessismo, ma portate la frangia proprio come le muse di Godard, vi pettinate come loro, e ora come la mettiamo?
Il bello di Instagram è che è una gara di voragini di lacune, e quindi le tapine non erano in grado di difendersi evocando la pre-esistenza di quell’estetica: per chiamare a tua difesa Louise Brooks, devi sapere che esiste; per dire «e allora Vadim», devi sapere chi sette anni prima dirigeva la frangia della Bardot senza guglare, devi sapere che con Godard poi aveva la fascia, e la parrucca, e allora chi è responsabile della sua frangia, sarà mica responsabile di sé stessa, vorremo mica insinuare che le donne sappiano decidere per sé o dire sì o no a un regista, pure quelle che in effetti la frangia se la sono fatta perché l’hanno vista al cinema o – anatema – su una rivista di moda?
Mentre le militanti più inattrezzate che la storia del dibattito filosofico abbia mai conosciuto (sì, comprese le epoche in cui le donne erano relegate in cucina: persino le analfabete erano equipaggiate di miglior dialettica, d’altra parte erano costrette a procurarsela per emanciparsi da un’inferiorità vera, mica se ne stavano comode a cercare la causa più fotogenica), mentre quelle linkavano articoli in cui segaioli dei Dams di tutto il mondo ci spiegavano che Godard non voleva empatizzassimo coi personaggi femminili (chi propone il 41 bis per l’uso della categoria dell’empatia in qualsivoglia dibattito, quello o quella ha il mio voto), mentre il ridicolo montava come meringa, io ripensavo a Belmondo e alla Seberg, a quella scena in cui lui le dice che se non sorride la strangola.
A dar retta all’opinionismo del 2022, «Dai, fammi un bel sorriso» è peggio che fischiarti per strada, il che a sua volta è molto peggio che stuprarti, quindi il Belmondo di oggi è come minimo apologeta di patriarcato. Se poi si considera che le mette davvero le mani al collo e conta, e a 7 le dice che tanto è così vigliacca che sorriderà, abbiamo tutto. Manipolazione, sessismo, bullismo, violenza, minacce, forse pure abigeato. Per fortuna si sono dimenticati la scena in cui le chiede perché non porti mai il reggiseno, sennò altro che un pomeriggio d’indignazione, ci toccava parlare di Godard come quello che in neolingua si chiama un «abusante».
Quando i film di Godard erano al presente, l’interpretazione era opposta: se mettevi in scena un maschilista, era per veicolare una critica al maschilismo. Poi è arrivata quella che mi piace chiamare “la sindrome Nicole Kidman”, dalla volta in cui scrissi su una rivista femminile che la Kidman nel suo ultimo film non riusciva a muovere la faccia causa interventi cosmetici, e le lettrici furibonde mandarono lettere al giornale in cui grossomodo dicevano: cosa la mettete in copertina a fare se poi la criticate? Ma una copertina non è uno spazio pubblicitario, o almeno non dovrebbe: è un modo di dire «c’è qualcosa da raccontare riguardo a questa tizia». E un film non dovrebbe essere un apologo o una condanna d’un comportamento: dovrebbe principalmente essere una storia che ti racconto.
L’altra sera parlavo con un’attrice, che mi faceva notare con autentico sconcerto che nessuno s’interessava più del festival di Venezia: «Parlano solo della morte della regina». È invero sconvolgente che esista un’economia dell’attenzione per la quale, di fronte al dirompere d’un evento maggiore, accantoniamo quello minore. Parleremmo del pulmino ecologico di Letta, se non fosse morto Godard? Di Calenda che s’organizza da solo il dibattito virtuale con la Meloni, se Totti non avesse detto che la moglie gli ha arrubbato i Rolex? Dei film di Godard, se non fossimo ipnotizzati dall’ottusa militanza che ci tiene a ricordarci che il regista aveva osato criticare Jane Fonda, con tutto quel che le videocassette della sua aerobica hanno fatto per noi?
Le correzioni uscì il primo settembre del 2001. Qualche anno fa, in un racconto, la moglie di Jonathan Franzen descriveva il marito, due settimane dopo l’uscita del romanzo, scalzato come un qualsiasi festival da una qualsiasi regina morta, guardare le immagini in tv e borbottare: prima o poi smetteranno di parlare di quelle cazzo di torri e torneranno a parlare del mio romanzo. Anche solo per dire che sono uno schifoso patriarca che inquadrava il culo della Bardot: è comunque attenzione.