«Vado?». «Sì, vai». In questo scambio, avvenuto il 25 aprile del 1975 a Singapore, c’è tutto dell’indissolubile legame che per 47 anni ha unito Tiziano Terzani, corrispondente tra i più importanti del Novecento, e sua moglie, Angela. A quel tempo Terzani lavorava per lo Spiegel: da poco il governo filoamericano del Vietnam del Sud lo aveva espulso per una serie di articoli critici, e lui era disperato. Di lì a pochi giorni Saigon fu presa dall’esercito comunista del Nord. Ritornare nel Paese senza un visto poteva voler dire finire in carcere, o peggio. Ma quella guerra lo ossessionava, sin dal tempo delle proteste giovanili viste e vissute negli Stati Uniti degli anni ‘60: per lui non raccontare la vittoria dei vietcong sarebbe stato imperdonabile. E così, spinto dalla donna che gli sarebbe stata a fianco per tutta la vita, partì. Il resto è “L’età dell’entusiasmo” (Longanesi), il ritratto di Tiziano Terzani che mancava. Il racconto di un uomo che amava la vita, affascinato dall’umanità e amante degli esploratori ottocenteschi, le cui gesta ha sempre cercato di emulare con i mezzi a propria disposizione. È il tassello, forse non finale, di quella che è stata spesso definita – non a sproposito – una vita straordinaria.
«Ho deciso di pensarmi come un ‘noi’ sperando che sia utile a entrambi e non solo vigliacco da parte mia» scrive sul suo diario Angela il 30 dicembre 1967: sono a New York, l’incertezza sul futuro pesa. Finiti i due anni di permanenza negli Stati Uniti grazie alla borsa di studio vinta da Tiziano, non ci sarà più la certezza di una rendita fissa, all’Olivetti (che aveva lasciato tempo prima) come altrove. Ma sarà proprio l’amore, rivolto al mondo tanto quanto ad Angela, a portarlo ai confini della Storia e, nei suoi ultimi anni, dell’anima.
L’ultima opera di Angela Terzani Staude è una guida alla complicità e alla condivisione di un determinato destino, nel bene e nel male, la traduzione letterale di quel «nella gioia e nel dolore» fin troppo abusato. È l’ennesima prova d’amore di una donna, nata in Italia alla fine degli anni ’30, vissuta nella Germania nazista e formatasi poi come traduttrice, che un giorno capì che la sua vita, senza quell’uomo proiettato verso un futuro grandioso, non sarebbe stata la stessa. «Mi hanno chiesto di scrivere la mia vita, ma la mia inevitabilmente è parallela, intrecciata a quella Tiziano» racconta Angela a Linkiesta. «È stato un grosso impegno. Sapevo bene che la vita la doveva inventare lui, perché l’aveva già comunque avuta in mente in qualche maniera. Io lo dovevo aiutare a realizzarla».
Nel libro racconta un Terzani irraggiungibile, quasi intimidatorio. A volte ne temeva l’impazienza, ma lui ha sempre ribadito in ogni suo scritto il suo amore per lei. Per usare una parola a lui cara, che consorte è stato?
Ottimo. Oggi le donne dicono che gli uomini impediscono loro di fare una vita appagante. Non è vero, dipende. Possono impedirlo, ma possono anche aiutare a fare una vita interessante. Tiziano svolgeva il suo lavoro per un ideale. In questo lo aiutavo, ma lui non mi ha mai considerata inferiore, né intellettualmente né in nessun altro modo. Mi ha sempre sentita come suo pari. Mi bastava, perché non mi rendeva insignificante, mi dava un vero ruolo. Poi, essendo nato povero, con un padre meccanico i cui soldi a stento bastavano fino alla fine del mese, ha provveduto sempre con ogni decisione a una certa sicurezza economica. Anche minima: quando si è accorto che era troppo minima, ha preso un lavoro all’Olivetti che da solo non avrebbe accettato.
Torniamo al vostro primo incontro, a casa di un’amica. Qui lei racconta come si intuisse già la sua natura. Un uomo con una «determinazione spaventosa», con l’ossessione dell’essere mortale e della scarsità di tempo a disposizione. Chi era Tiziano prima di diventare Terzani?
Aveva un istinto fortissimo, sentiva drammaticamente che la vita era breve. Tutti lo sanno, ma poi tirano dritto, vivono dimenticandosi la meta, la fine. Tiziano no. Non l’ha mai dimenticata: non voleva sprecare nessun momento, doveva lasciare una traccia. Gli era insopportabile l’idea di aver vissuto invano, ma non per sé: sentiva di dover dare qualcosa a questo mondo. Diceva «cosa faccio io qui, ci passo e basta? No! Devo contribuire a tutto questo». Un invito, molto ispirante per gli altri.
Decisamente.
Vero? Lui non predicava, raccontava con entusiasmo quello che aveva capito o visto; era come un invito ad aprire gli occhi: «Guardate, e credetemi se vi dico che vale la pena vivere». Aveva questa specie di positività, che come tutte le cose rivelava un aspetto oscuro: la paura di morire presto. Veniva da una famiglia in cui molti erano morti di tisi, lui stesso si era ammalato a 19 anni, sembrava destinato a morire giovane ma si salvò giusto in tempo, grazie all’invenzione della penicillina. Diceva sempre «io non sono così tanto intelligente, se non mi metti niente davanti non produco niente. Ma se mi metti il mondo davanti sono come una spugna: lo succhio e ci penso sopra». Non era un pensatore astratto.
Com’è stato il vostro rapporto intellettuale e professionale?
Particolarmente buono. Lui era curioso di me, della mia famiglia, così diversa dalle altre, con l’ossessione della scoperta. I miei parenti hanno vissuto vite avventurose: alcuni sono finiti nelle Antille, altri sono andati a Shanghai, scomparendo all’inizio del ‘900. Queste cose lo affascinavano e incoraggiavano. E poi gli piaceva il mondo come lo osservavo io, vedeva quello che io raccontavo. A Tiziano tante donne non interessavano per niente, per quello che avevano da dire. Non sopportava il momento in cui si passava al chiacchiericcio stupido, frivolo. Lo considerava una perdita di tempo.
E poi ci sono stati i figli. Come padre ha sempre detto di non pretendere a essere niente di più che «un seminatore di bei ricordi». Com’è stato crescere Folco e Saskia?
Non posso dire che sia stato molto presente, nel senso di un padre che prende i figli, li porta fuori, gioca con loro per ore, assolutamente no. Però li teneva d’occhio, e stava molto attento a raccontare, a fargli ascoltare storie. A tavola stavano zitti, erano affascinati. Folco specialmente, se le è bevute tutte. Mentre Saskia a volte ne aveva proprio abbastanza, si alzava, diceva «ciao» e andava coi suoi amici.
A un certo punto del libro lei parla, con molta consapevolezza e apertura, della innaturalità della monogamia, se si ama la vita e se si ama l’umanità, come la amavate voi. Scrive «Tiziano mi ha sempre dato l’impressione di essere unica, e questo mi bastava». Come si arriva a questa maturità?
Ci si arriva solo alla mia età. Al momento non è che mi bastasse. Molte volte non sapevo esattamente come vivesse. Non chiedevo neanche, e forse ho fatto bene. Ovvio che un giornalista, in situazioni di guerra, di drammaticità, di eccezionalità, con tante altre giornaliste simpatiche, belle, con cui aveva tutto questo in comune, deviasse dalla monogamia. Però non l’ho veramente mai sentito come una minaccia. Quello che ho scritto oggi, però, non l’avrei scritto prima. Non con queste parole.
Lei ha poi letto e pubblicato i diari, dove lui raccontava tutto.
Sì. Tiziano mi ha sempre detto «devi sapere che siamo diversi noi uomini, a volte non interessano rapporti intellettuali o sentimentali, basta la donna». Più o meno ci ho creduto. Uno si accorge sempre quando l’altro è seriamente preso da un’altra persona. Non ho mai avuto questa impressione, né è stato mai nelle sue intenzioni. Certo, io mica credo di essere unica, anche a me ogni tanto è piaciuto un uomo diverso. Ma non per questo Tiziano ha voluto cambiare la sua vita. Era disciplinato tanto quanto era passionale. L’idea di ricominciare una famiglia per lui era impossibile. Un nostro amico scrittore diceva che aveva divorziato, ma continuava ogni sera a chiamare sua moglie e starci due ore al telefono. Quando gli chiesi perché, mi rispose «non si divorzia da sé stessi».
Il libro si conclude con la fine della guerra in Vietnam, la fine dell’età dell’entusiasmo, vissuta inseguendo un’ideale. Tiziano, convinto socialista, oltre al Vietnam, ha poi raccontato Cambogia, Cina, Unione Sovietica. Quando e come è arrivata in lui, in voi, la delusione socialista?
Quella delusione non l’ha voluta vedere. Si vedeva già quando eravamo in America e lui studiava il cinese: l’esperimento di Mao, la Rivoluzione Culturale, sembrava meraviglioso, ma non si capiva che tutti gli intellettuali erano dietro le sbarre, portati al suicidio, ammazzati. La Cina distrutta non dagli altri, dai cinesi stessi. Significa voler far fuori la propria storia. Ma lui no, «la Cina non va offesa». Tra il ’75 e l’80 siamo stati a Hong Kong e lui è andato a vedere i Paesi diventati comunisti con la fine della guerra in Vietnam. Vede l’olocausto in Cambogia, con almeno un terzo della popolazione ammazzata da Pol Pot. In Vietnam vede come i comunisti del Nord, che avevano avuto principi molto ammirevoli, non siano riusciti a portarne a termine uno e si ricominci con i campi di concentramento. Era delusissimo dal Vietnam, e inorridito dalla Cambogia. È stato tra i primi a perseguire questo sospetto che lì regnasse della gente assassina.
E all’inizio non ci credeva nessuno.
Non ci credeva la sinistra. Ci credeva la Cia, ma siccome ci credeva la Cia non ci credeva la sinistra. La stampa era dalla parte dei comunisti, perché la sconfitta americana in Vietnam era stata una cosa pazzesca. Nel 1980 siamo andati in Cina, ed eccoci davanti alla catastrofe. Mao era morto, la gente cominciava a tornare dai campi di prigionia, dalle prigioni, si cominciava a vedere quanti milioni erano stati ammazzati, messi a morte o morti di stenti. L’economia era a terra, il paese non sarebbe sopravvissuto che qualche anno se Deng Xiaoping non fosse venuto a cambiare direzione. Che era quella americana. E lì anche Tiziano ha detto «ma come, fate tutto questo per poi andare verso il consumismo?». Non l’ha accettato mai, nemmeno in Giappone. Questi antichi paesi, con storie così speciali, civiltà così diverse dalla nostra, tutti monotoni uno uguale all’altro, ad andare dietro al metodo americano. No. E allora lì è cominciato a girare verso la spiritualità, a vedere cosa mai l’uomo era, era diventato, era sempre stato, alla fine per capire anche sé stesso.
Immagino ci sarà una seconda parte del suo libro.
Sì, ho già materiale per continuare. È necessaria una seconda parte. È tutta imbastita, ed è quella in cui tutto l’entusiasmo viene messo duramente alla prova e non necessariamente resta entusiasmo, a volte diventa mera depressione. Mi ci vorrà qualche anno, però.
Avete visto l’America degli hippies, delle proteste razziali, della guerra in Vietnam, di Nixon. In questi ultimi anni c’è stato Trump, il movimento Black Lives Matter, l’assalto a Capitol Hill, il ritiro dall’Afghanistan. Lei nel libro cita Rap Brown, che dice «la violenza è americana come la torta di ciliegie». È sempre la stessa America?
Certo. Non cambia assolutamente mai. L’America è il Far West, è giovane, è come un bambino che si vuole dare delle arie. Ha il potere, vuole conquistare. La Seconda Guerra Mondiale ha rovinato il carattere agli americani. Ma è sempre stato lo stesso. C’è sempre questo bisogno di essere i primi, i salvatori, sicuri, stupidi come sono…Biden è stupido, Trump è un assassino, eppure credono di essere meglio degli altri. Quando impareremo che di questo Paese, per quanto sia bella la sua giovinezza, il suo credere, il suo entusiasmarsi, il periodo hippy, non c’è da fidarsi?
Tiziano parlava, in questo senso, di «decivilizzazione dell’umanità».
Mi sembra molto giusta come espressione. Nessuno la usa questa parola, ma è quello che sta avvenendo. Ma mica solo in America. Ci stiamo decivilizzando tutti, anche noi europei.
A un certo punto della sua vita, lei ha dovuto fare i conti con un Tiziano sempre più lontano dal giornalismo, e infine, con la malattia, dal mondo e dai suoi orrori, con il suo ritiro in India. Com’è stato quel passaggio? Cos’è stata la fine della vostra vita insieme?
Dopo il Giappone era ancora in mezzo alla depressione. Non gli è più passata, ma restava ai margini. Quando è cominciata la storia dell’Indovino (si riferisce al libro “Un indovino mi disse”, del 1995, ndr), lui non voleva più vivere in paesi così modernizzati in cui l’uomo è ridotto a un numero anonimo. Si è concesso un anno nel vecchio modo di vivere: era poi così brutto da rovesciare tutto, abbandonare tutto e creare un nuovo stile di vita? No, gli è piaciuto tantissimo, e soprattutto ha osservato come, nel passato, l’uomo aiutava sé stesso nella disperazione, nello smarrimento, con tanti piccoli accorgimenti. La superstizione, gli indovini. Chi li interrogava si sentiva guidato, riusciva a gestire il tutto anche con le proprie risorse. Tiziano si chiedeva perché si dovesse togliere tutto questo alla gente. Lui non ci ha mai creduto veramente, ma ha creduto che l’uomo avesse diritto alla fantasia, a qualche rapporto spirituale, non solo alla scienza e ai computer. Questo perché amava molto le cerimonie come quelle che avevamo anche noi a Firenze: in Asia sono le feste dei templi e qui sono quelle delle chiese, San Giovanni, i fuochi d’artificio, tutto. Questo la rendeva più bella la vita. Poi, lui rifiutava tutti i dogmi, e tutte le ideologie. Ma rivoleva la vita.
Il 5 novembre del 1968, il giorno delle elezioni che avrebbero visto trionfare Nixon, lei è negli Usa e scrive: «“Chi vincerà le elezioni?”. È sempre questa l’ultima, preoccupata domanda». Siamo alla vigilia delle elezioni in Italia. Cosa ci aspetta? È preoccupata?
Sì, parecchio. La destra ha dimostrato di essere capace di una strategia che unisce gruppi che in verità uniti non sono, ma lo restano per andare al potere. La sinistra non è capace, litigano fino all’ultimo. Io la destra l’ho vista al potere, in Germania (durante il nazismo, ndr). Ero piccola, ma non lo voglio mai più rivedere un sistema del genere. Finisce la libertà. Abbiamo fatto di tutto per essere liberi, sono morti a migliaia per la libertà. E ora si ricomincia? No, non mi fido. A sinistra nemmeno, ma non ci tolgono la libertà di parlare. Dobbiamo usare il diritto di voto. Non si può dire «ora non mi piace, non voto», no. In qualche modo bisogna esprimersi. È troppo facile godere di ciò che un Paese offre ma poi dire «ma no». Abbiamo anche la responsabilità, direi. Quando a Folco, da piccolo, chiedevano se volesse più bene al babbo o alla mamma, lui rispondeva «alla nonna». Anche Tiziano lo diceva sempre: bisogna imparare a contare fino a tre. Inventiamoci questa terza soluzione. In questo caso penso davvero che lui sarebbe andato a votare. Non so chi voterò. Letta credo potrebbe essere un po’ meglio di Meloni. Un po’ più pavido, magari, ma meno boccalone, meno volgare. Ma così è impossibile. È giusto e responsabile fare qualcosa per dire basta, né destra né sinistra, hanno dimostrato di non essere più capaci di nulla. Ma si deve andare a votare. E io voterò chiunque sia utile per dire: la destra no.