Transizione federalistaIl voto dell’Eurocamera sull’Ungheria segna l’inizio di una nuova vita per la democrazia europea

Il rapporto stilato dai deputati la settimana scorsa ha un effetto dirompente sull’assetto istituzionale di Bruxelles: in questo momento l’Ue non è più una confederazione e ha la possibilità di superare il carattere ibrido del suo sistema portando a compimento il processo di integrazione

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Il rapporto del Parlamento europeo sull’autocrazia in Ungheria segna un passaggio fondamentale nella vita della democrazia europea e chi lo ha giudicato come una «scelta ideologica» ne ha sottovalutato l’effetto dirompente sul sistema europeo e sul futuro delle relazioni fra l’Unione europea e gli Stati membri.

La Commissione europea, dopo aver atteso a lungo per usare lo strumento delle sanzioni finanziarie, ha deciso di proporre al Consiglio un primo taglio dei fondi di coesione di cui l’Ungheria ha beneficiato dal momento della sua adesione ma anche durante tutti i negoziati che hanno preceduto l’allargamento nel 2005 (i fondi “Peco”) mantenendo la sospensione delle sovvenzioni legate al Next Generation Eu e al Pnrr che l’Ungheria ha presentato per far fronte alle conseguenze economiche e sociali della pandemia.

Sappiamo che le Corte di Giustizia aveva già giudicato in una prima sentenza del 16 febbraio 2022 che la condizionalità nella concessione delle sovvenzioni entrata in vigore il 1° gennaio 2021 era conforme al diritto europeo e che la sospensione del Next Generation Eu riguarda tutti i Paesi che non rispettano gli elementi essenziali dello Stato di diritto e in particolare la separazione dei poteri, il principio di legalità e l’indipendenza della magistratura.

Il Consiglio, che ha adottato nel 2020 le norme sulla condizionalità della concessione delle sovvenzioni (e dei prestiti) legate al Next Generation Eu, dovrà dare seguito al rapporto del Parlamento europeo e alla proposta della Commissione autorizzando i tagli e sospendendo i pagamenti – del resto mai effettuati – con un evidente impatto negativo sull’economia magiara.

Il governo ungherese ha annunciato un pacchetto di diciassette misure legislative legate soprattutto alla lotta alla corruzione sperando di chiudere entro la fine dell’anno il negoziato con Bruxelles e ottenere i fondi che la Commissione ha deciso di tagliare ma nulla è stato annunciato a Budapest per cancellare le norme liberticide ed in particolare il controllo sulla stampa, la dipendenza della magistratura e le leggi che provocano discriminazioni sugli orientamenti sessuali né la rinuncia al sostegno al regime autocratico di Mosca.

Il fatto che la decisione definitiva sul taglio dei fondi spetti al Consiglio sottolinea un primo aspetto delle relazioni fra l’Unione europea e uno Stato membro e mette in luce un elemento essenziale (e cioè che riguarda l’essenza) del sistema europeo: contrariamente a un sistema federale in cui le sanzioni applicate contro uno Stato federato vengono decise dal potere federale (governativo, giudiziario o di polizia), nell’Unione europea le sanzioni vengono decise dai governi degli Stati membri seppure all’interno di un organo comunitario come è il Consiglio che è tenuto a rispettare le regole europee a cominciare dall’obbligo di agire a cui si lega la possibilità che la Corte lo condanni a conclusione di un «ricorso in carenza».

L’Unione europea non è più una confederazione, dove gli Stati membri cooperano fra di loro ma mantengono la loro sovranità, ma non è ancora una federazione dove il potere di interdire le violazioni di regole “costituzionali” spetta agli organi federali.

Ecco qui un primo aspetto che ci induce a ritenere che il rispetto dello Stato di diritto nell’interesse dei cittadini richieda il passaggio dal sistema ibrido comunitario a un sistema pienamente federale.

Vi è tuttavia un secondo aspetto ancora più importante del rapporto adottato dal Parlamento europeo in cui si rilancia e si rafforza una richiesta avanzata già in precedenza dall’assemblea e cioè l’avvio dell’art. 7.1 del Trattato di Lisbona sull’Unione europea che riguarda il «rischio di una violazione grave dei diritti fondamentali e dei valori comuni» in un Paese membro.

L’attivazione dell’art. 7.1 TUE può essere fatta dal Consiglio – e non dal Consiglio europeo – che decide con una maggioranza dei 4/5 dei suoi membri (e cioè da 21 membri su 26, essendo escluso dal voto lo Stato sotto inchiesta) dopo l’approvazione del Parlamento europeo ma questa eventuale attivazione solleva quattro questioni fondamentali:
• Il Parlamento europeo ha concluso che in Ungheria non ci troviamo più di fronte ad un “rischio” di violazione grave dei valori dell’Unione ma che il governo ungherese ha superato la soglia che distingue una democrazia da una autocrazia e cioè un regime illiberale;
• L’avvio della procedura consente al Consiglio di «verificare regolarmente se i motivi che hanno condotto a tale constatazione (del rischio, ndr) sono ancora validi»;
• Nessun tipo di sanzione o di interdizione è previsto dal Trattato in questa prima fase della procedura fino a che il Consiglio europeo – all’unanimità meno il voto dello Stato oggetto della decisione e su proposta della Commissione o di un terzo (9, ndr) degli Stati membri – constati l’esistenza della violazione consentendo al Consiglio di applicare delle sanzioni a maggioranza qualificata;
• Durante tutte queste fasi è escluso ogni potere di controllo nel merito delle violazioni da parte della Corte di Giustizia che può solo intervenire per verificare la correttezza della procedura se un attore istituzionale ne fa richiesta.

Oltre alla questione relativa alla natura ibrida dell’Unione europea, che non è più una confederazione ma non è ancora una federazione perché il potere di decisione sulle relazioni fra gli Stati e la stessa Unione europea è affidato agli Stati o meglio ai governi degli Stati membri, appare con tutta evidenza la contraddizione e la mancanza di coerenza fra la procedura dell’art. 7 TUE relativa ad uno Stato già membro e il principio essenziale dell’art. 49 TUE secondo cui può chiedere di aderire all’Unione europea e dunque di diventarne membro a parte intera solo uno Stato europeo «che rispetta i valori sanciti dall’art. 2 (TUE, ndr) e si impegna a promuoverli».

L’esistenza di un regime illiberale all’interno di una Unione europea fondata sull’ancoraggio «ai principi della libertà, della democrazia e del rispetto dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali e dello Stato di diritto» (primo paragrafo del preambolo del Trattato, ndr) non è accettabile perché corrode le sue radici.

In questo spirito il Parlamento europeo dovrebbe iscrivere nelle proposte di riforma del sistema europeo la richiesta di eliminare questa contraddizione e questa mancanza di coerenza e sottoporre ai parlamenti nazionali e, attraverso di essi, alle opinioni pubbliche un «accordo internazionale sulla democrazia europea» in occasione di una conferenza interparlamentare secondo il modello delle «assise» che si riunirono a Roma nel novembre 1990 dopo la fine dell’imperialismo sovietico e prima dei negoziati sul Trattato di Maastricht.

Tale accordo dovrebbe essere la premessa dei negoziati di adesione come oggetto di un sostegno democratico incontestabile chiedendo ai parlamenti nazionali degli Stati membri e dei Paesi candidati di ratificarlo e sostenendo che la mancata ratifica avrebbe come conseguenza l’esclusione della candidatura alla adesione ma anche la decisione di non voler far parte della comunità di destino che unisce cittadini e Stati.

Poiché tutto questo dovrà essere tradotto in norme di trattato – o, se volete, costituzionali – l’accordo deve prevedere l’avvio di un processo costituente che abbia al suo centro il ruolo di proposta del Parlamento europeo e di decisione ad referendum (e cioè in vista di un referendum pan-europeo) dei parlamenti nazionali.

Così si potranno porre le basi per superare il carattere ibrido del sistema europeo e realizzare la finalità federale che è stata posta a fondamento del processo di integrazione europea.

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