Non solo uvaTutti i vini tarocchi dell’antica Roma

La necessità aguzza l’ingegno. E se a Roma non tutti potevano permettersi di bere vino vero, ricavato dall’uva, se ne preparavano di ingredienti di ogni tipo, dagli asparagi allo zafferano

Foto Aquilatin - Pixabay

Il più famoso era l’idromele, diffuso in tutta l’antichità e non solo nel mondo classico e arrivato fino a noi che ancora lo produciamo e lo beviamo. Ma a Roma era assai diffusa la pratica di realizzare vini “alternativi”, arricchiti con altri ingredienti o prodotti a partire da basi diverse dall’uva.

Acqua e miele erano sicuramente gli elementi più semplici e diffusi per queste ricette: «si prescrive di conservare l’acqua piovana per cinque anni. Altri, più accorti, facendola subito bollire, la riducono di un terzo cui aggiungono un terzo di miele vecchio; quindi la lasciano al sole per quaranta giorni a partire dal sorgere della costellazione del Cane (in luglio, ndr); altri invece la travasano così com’è e la tappano il decimo giorno. Questo è l’idromele».

La ricetta di Plinio il vecchio risale al primo secolo dopo Cristo. E lo scienziato latino puntualizza che mistura «acquista invecchiando il gusto del vino». Tanto che si diluiva anche l’aceto col miele, «a tal punto niente è rimasto intentato dagli uomini».

Vino dal miele, dunque, ma non solo: Plinio e gli storici antichi ci mostrano una serie di preparati ottenuti dalle materie prime più disparate. Si faceva vino a partire dal miglio, dal loto, dalle radici degli asparagi, dalla ruta, dai cavoli, oltre che dalla frutta: si faceva vino di datteri «in uso presso i Parti, gli Indiani e l’Oriente intero», vino di fichi, il “sicite”, particolarmente dolce, dalla carruba siriana, dalle nespole, dalle corniole, dalle sorbe, dalle more secche, dai pinoli e naturalmente dalle pere e «da tutte le qualità di mele».

La tradizione del sidro era già affermata all’epoca tra molti popoli, dal Mediterraneo fino al Nord Europa. Ma non si faceva vino solo con la frutta. Base per quelli che Plinio chiama vini “fittizi” potevano essere anche i fiori, su tutti i petali di rosa pressati, e le piante, come il Nardo, selvatico o celtico. Ancora, i profumi e le spezie, come la mirra, la cannella, il cardamomo, la cassia e lo zafferano, per finire con il pepe, che si usava in abbinamento al mosto e al miele.

Tra gli ingredienti più insoliti il calamo selvatico e il cocomero selvatico, accanto ad erbe come la radice di genziana, il giunco, il timo, la mandragora e gli arbusti: «il vino di arbusti – spiega il naturalista – si prepara facendo bollire nel mosto le bacche o il legno verde di due varietà di cedro, di cipresso, del lauro, del ginepro, del perebinto, del calamo aromatico, del lentischio; così come il legno di olivo nano, di pino nano, di quercia nana». Se fosse buono, non lo sappiamo, possiamo solo immaginarne il profumo intenso ed erbaceo. Quello che sappiamo è che nessuna di queste varietà di vino godeva dell’approvazione del noto medico Temisone, allievo dell’ancor più celebre Asclepiade, che condanna l’uso di questi vini.

Lo stesso Plinio mostra qualche perplessità su questi prodotti: «per Ercole, il loro uso può apparire innaturale a meno di non credere che l’aromatico e i vini a base di profumo siano prodotti della natura e che essa abbia fatto nascere degli arbusti perché vengano bevuti. Eppure fa piacere conoscerli, perché provano quanto gli uomini siano solerti nello sperimentare di tutto. Ma nessuno di questi vini dura un anno, eccetto quelli che si formano proprio con l’invecchiamento, e la maggior parte nemmeno trenta giorni, si può star certi».

Proprio l’ingegno dell’uomo e la sua solerzia nello sperimentare hanno con il tempo posto rimedio alla scarsa longevità di questi vini fittizi: gli stessi arbusti, profumi e piante in epoca medievale sono diventati ingredienti di distillati, sicuramente più stabili, grazie al perfezionarsi di tecniche non meno antiche che consentivano di preparare acquaviti e liquori.

Del resto per gli intellettuali dell’epoca romana i vini ricavati da ingredienti diversi dall’uva erano dei “tarocchi” da evitare, un po’ come per noi i prodotti “fake” contro cui mettono in guardia giornali e associazioni. Di più: il vino vero a Roma come in Grecia aveva un valore sacrale di cui i surrogati erano del tutto privi. Tuttalpiù poteva essere riconosciuto un uso medicinale di alcune tipologie.

Questo non toglie che chi, per ragioni economiche o semplicemente geografiche, non poteva procurarsi il nettare di Bacco ricorresse spesso e volentieri a questi particolarissimi tarocchi.

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