Il Paese addomesticatoWanna Marchi, le canzoni che costano e il pensiero magico che possiamo permetterci

La storia dell’imbonitrice più famosa d’Italia, ora protagonista di un documentario Netflix, è ovvia e possente metafora delle elezioni. Anche perché ripropone l’annoso dubbio se sono più criminali loro che truffano la gente o più sceme le persone che si fanno infinocchiare

Aziz Acharki, Unsplash

La prima scena di Turné – chi aveva l’età giusta quando uscì lo sa, e ci dispiace per gli altri – è Fabrizio Bentivoglio che fa un provino per recitare Trofimov. E il monologo che pensa bene di portare a un produttore che deve decidere se vada bene per Il giardino dei ciliegi è una cosa che dice «Là c’è una porta rossa, la vorrei tinta in nero», e il produttore chiede se sia García Lorca, e lui risponde «Mick Jagger» – il che aveva lo scopo (riuscitissimo) di far capire a noi men che ventenni che quel personaggio era disadattato, esaurito, anticonformista, innamorabile.

Solo che poi a quel punto succede una cosa che non mi dà pace da trentadue anni e mezzo, dalla primavera dei miei diciassette anni in cui neanche sapevo che costo macroscopico fossero le canzoni nella produzione d’un film, da quello stesso anno in cui Scorsese aveva a mia insaputa speso fantastiliardi per avere Gimme Shelter in Quei bravi ragazzi.

La scena finisce con quello sprezzante «Mick Jagger», e partono i titoli di testa, e i titoli di testa hanno una canzone che il budget d’un Salvatores a inizio carriera poteva permettersi, e quella canzone non è Paint It, Black.

La mia vita adulta è stata funestata dal chiedermi «sì, ma questa quanto gli è costata?» d’ogni canzone giusta (poche, per fortuna) in ogni scena d’ogni film. Non mi ricordo quale francese, forse Jacques Perrin, dicesse di non riuscire più a guardare i film senza pensare al segno per terra al quale si fermano gli attori, al tizio subito fuori scena che bada al riflettore, alla truccatrice che aspetta lo stop per entrare a tamponare. Io non riuscivo a guardare Siccità senza pensare: ma quanto gli sarà costata Mina?

Guardando Wanna, il documentario sulla Marchi e sulla figlia, sugli anni ruggenti dello scioglipancia e dei numeri del Lotto, sul dibattito etico su chi meriti più d’essere punito (chi truffa o chi si fa truffare?), sul mago do Nascimiento che proprio non capisco perché non sia almeno concorrente di Grande Fratello o altro ruolo televisivo, sul marchese Capra de Carré che non sapevo esistesse ma chissà che invidia Fruttero&Lucentini per quel nome stupendissimo, guardando le quattro puntate su Netflix in cui la venditrice d’illusorie cuccagne viene accusata del massimo crimine contemporaneo, la mancanza di empatia, pensavo: chissà se a mettere Panama non ci hanno pensato o costava troppo o Fossati non gliel’ha concessa. Sembra scritta per la loro stanchezza, per la loro guittezza, per il loro non poterne più di andare ai cocktail con la pistola.

Wanna è, come ormai tutto, poderosa allegoria della campagna elettorale. Racconta Stefania Nobile – figlia della Marchi, e appartenente alla stessa scuola di Ivanka Trump: quelle che difenderanno i genitori oltre ogni evidenza e decenza, e per la Nobile oltretutto difendere la madre significa rinnegare il padre – che, quando vendevano prodotti dimagranti, si facevano richiamare dalle acquirenti ogni tre giorni per farsi dire quanto peso avessero perso. «Io ti tengo legato a me, e domani ti vendo altro».

Che differenza c’è tra la famiglia Marchi e chi cita il Piccolo principe e l’«addomesticami» che significa «creare dei legami»? M’è tornato in mente Rotondi che una volta twittò una storia della Dc di governo in un paio di righe: Abbiamo portato questo Paese a divenire la settima potenza del mondo consentendovi evasione a nord di Firenze e pensioni false a sud.

Addomesticami, implorò l’elettorato disposto a tutto tranne che a fare la propria parte.

Che speranza può mai avere di farcela il candidato che pretenda dagli italiani adempienza alle regole? L’elettorato, come Ozzano, non è pronto. Ozzano dell’Emilia era il paesino in cui Wanna Marchi, in profumeria, aggrediva le clienti dando loro delle schifose cellulitiche che dovevano emendare la loro orrendità se non volevano che i mariti le lasciassero. «Ozzano non era pronta», dice una testimone. Le televendite sì (le tv locali stavano agli anni Ottanta come TikTok sta a questo decennio).

«Buscetta si pente: io non mi pento», dice perentoria la Nobile messa davanti a uno dei palesi casi di truffa, in un montaggio alternato con la madre che, d’una povera vecchia cui avevano venduto rituali per toglierle il malocchio, dice «Oggi è, credo, all’inferno, perché quando una fa una roba del genere», e la roba del genere è: chiamare Striscia la notizia, e far finire sputtanata l’azienda di famiglia di Wanna e Stefania.

È difficile dare torto a madre e figlia quando chiedono retoricamente se sono delinquenti loro o coglione chi compra per milioni una bustina di sale che dovrebbe sciogliere il malocchio; è difficilissimo non pensare «sì, però tu credi all’inferno, non è che brilli per razionalità rispetto a quella che credeva al malocchio»; è impossibile non capire che Wanna e Stefania non hanno capito la cultura in cui vivevano, che da centoquarant’anni ritiene che vadano arrestati il Gatto e la Volpe, mica interdetto Pinocchio. (La volpe del Paese dei balocchi sarà parente di quella del Piccolo principe? Chissà se qualche politologo ha la risposta).

Finirono a processo, la gatta Wanna e quella volpe di sua figlia, e nel documentario ci sono immagini di Un giorno in pretura, con una testimone che riferisce turbata che Wanna le disse «Tu devi morire», e la pm turbatissima glielo fa ripetere. Sarò pure ossessionata, ma mentre guardavo pensavo alla Rogati che, secondo Repubblica di ieri, scriveva da una sim intestata a un’altra tizia «sei morto» assortiti a taluni vicini rumorosi (quanto la capisco). Dice Repubblica che la signora è rinviata a giudizio per minacce; ma «sei morto» e «devi morire» non sono minacce: è pensiero magico. Se crediamo che desiderare la morte di qualcuno gli arrechi danno, poi per forza finiamo a comprare promesse di snellezza e di ricchezza da teleimbonitrici che ci urlano in faccia. Chissà le facce, sapessimo di agitarci su una polveriera.