«Sono sicuro che in un’elezione pulita vinceremo con almeno il 60% dei voti». ha detto Jair Bolsonaro ai giornalisti prima di montare sulla Jeep. È andato a votare indossando la maglietta giallo fluo della nazionale di calcio brasiliana, dopo aver incassato l’endorsement della stella della Seleçao Neymar. L’aggettivo «pulita» è la parola spiega come è andata questa campagna elettorale. Il presidente uscente ha più volte messo in discussione l’attendibilità dell’esito delle urne, minacciando di non accettarne il verdetto. Un atteggiamento che lo avvicina a uno dei suoi più convinti sostenitori a livello internazionale, Donald Trump.
Dall’altra parte c’è Lula, che si è presentato al seggio in modo più sobrio e istituzionale, quasi a voler marcare le differenze con il suo avversario. Il voto in Brasile è racchiuso tutto in questi fotogrammi: Lula e Bolsonaro, Bolsonaro e Lula. Saranno loro a sfidarsi nel ballottaggio del 30 ottobre, con Lula che ha mancato per un soffio il 50% dei voti necessario per trionfare al primo turno, contrariamente ai sondaggi che lo davano in grande vantaggio sul suo sfidante.
Per Bolsonaro un risultato al di sopra delle attese, soprattutto in Parlamento: il leader sovranista ha rafforzato la sua pattuglia (è proprio il caso di dirlo) parlamentare, ponendosi come un importante argine alle possibili riforme della sinistra, in caso di vittoria targata Lula.
I due sono stati i mattatori di questa tornata, a rappresentare in maniera plastica un Paese che si avvia a una polarizzazione totale, nei modi più cruenti. Numerosi infatti sono stati gli scontri armati durante la campagna elettorale, con Bolsonaro che ha chiaramente invitato i suoi sostenitori ad armarsi contro il nemico.
Durante il suo mandato, il presidente uscente ha costantemente indebolito le giovani istituzioni democratiche brasiliane, isolando il Paese anche sullo scacchiere internazionale. D’altronde, anche la volontà di mettere in discussione il verdetto elettorale rientra nel manuale del perfetto antidemocratico. In questo senso, la possibile elezione di Lula potrebbe rappresentare una boccata d’ossigeno per il Brasile.
Un paese estremamente diviso, tra le enormi disuguaglianze presenti nelle regioni costiere e nelle grandi città e il rampante ceto latifondista attivo nelle aree interne. Stando ai dati, è stata proprio l’agricoltura il settore che ha trainato il Brasile durante il mandato di Bolsonaro: in particolare dopo lo scoppio della guerra in Ucraina, il paese ha scoperto di essere un player globale di grande rilevanza nel settore agroalimentare.
È proprio nel mondo agricolo e in Stati come il Goiàs, che il presidente uscente ha costruito un rapporto speciale con la popolazione: presenziando ai rodeo, infiammando la folla o ascoltando la Sertaneja, la versione brasiliana del country.
L’ascesa del settore agricolo rappresenta un fiore all’occhiello per il governo Bolsonaro, che però ha nel frattempo gettato il paese nel caos durante la pandemia, incrementato la deforestazione in Amazzonia e ridotto in estrema povertà una parte consistente della popolazione. Tutte questioni che ora sta cavalcando Lula con la sua agenda, promettendo una generale stabilità rispetto al clima schizofrenico che ha accompagnato il presidente uscente.
Fin qui, dunque, un quadro estremamente polarizzato tra due sfidanti molto diversi tra loro: da un lato il militarismo targato Bolsonaro, dall’altro la cultura operaia di Luiz Inácio Lula da Silva. Se c’è una cosa che però accomuna i due sfidanti, è la matrice populista della loro politica. Un populismo che affonda le sue radici già dall’inizio degli anni 2000 e dal primo governo Lula.
La piattaforma di sinistra di Lula nei primi anni 2000 era molto diversa dal programma di estrema destra di Bolsonaro. Questo drastico cambiamento nelle preferenze dei brasiliani tra il populismo di sinistra nel 2002 e quello di destra nel 2018 si spiega con le diverse strategie politiche utilizzate da Lula e Bolsonaro per conquistare gli elettori.
All’epoca, Lula approfittò delle politiche di austerità dei suoi predecessori nei primi anni 2000, che portarono a un drammatico aumento delle disuguaglianze. Il presidente allora promosse uno dei più grandi programmi di protezione sociale al mondo, ottenendo una concreta riduzione della povertà. Ma questi risultati sono stati inficiati da accuse di corruzione e cattiva gestione economica, per le quali Lula è stato condannato e incarcerato tra il 2018 e il 2019. Inoltre, il suo atteggiamento di fondo ha esacerbato i conflitti sociali nel paese.
A destra, allo stesso modo Bolsonaro ha sfruttato le politiche di austerità attuate tra il 2015 e il 2018 dal governo di Dilma Rousseff. Jair ha anche giocato sull’insicurezza degli elettori promuovendo l’immagine di un uomo forte e rafforzando le divisioni sociali e culturali. Il suo populismo di matrice sovranista ha portato alla fine di decenni di sviluppo economico e a uno dei maggiori tassi di mortalità al mondo per COVID-19.
In tutto il mondo, le contraddizioni dell’agenda populista sono state messe a nudo dai fallimenti nel contenere la diffusione delle infezioni e i tassi di mortalità dovuti al virus. Tuttavia, il successo dei politici populisti sta nel fare appello alle divisioni economiche e sociali esistenti.
Mentre l’ascesa del populismo in Europa e negli Stati Uniti è stata oggetto di grande attenzione da parte dei media e dei ricercatori, le cause del fenomeno nelle economie emergenti e in via di sviluppo sono ancora poco esaminate. Molti esperti, ad esempio, riconducono l’ascesa del populismo in Brasile agli shock economici regionali causati da un processo di liberalizzazione del commercio iniziato nei primi anni Novanta.
Sia Lula che Bolsonaro sono stati in grado di mobilitare gli elettori amplificando le divisioni causate dagli shock commerciali e dai successivi periodi di austerità. Ma i due leader sono stati eletti su piattaforme e narrazioni molto diverse. In termini di retorica, Bolsonaro sottolinea l’antagonismo con il sistema politico, in particolare con il Partito dei Lavoratori di Lula. Ha attaccato gli altri rami del governo associandoli alla corruzione e accusandoli di usurpare la democrazia.
Guardando oltre Bolsonaro, la sua elezione è stata il risultato del fallimento dell’establishment politico nel presentare una risposta coerente alla crisi multiforme che la società brasiliana ha vissuto dal 2013. Bolsonaro ha catturato gran parte della rabbia e dell’indignazione dell’elettorato.
Lula punta sul desiderio popolare di tornare a un passato più prospero e ordinato. Il panorama politico sembra quindi saturo, senza possibilità di emergere per nuovi attori: Lula e Bolsonaro comunicano entrambi in modo molto popolare e diretto. Entrambi nella loro retorica hanno elementi di antagonismo verso un potere precostituito.
Ma le somiglianze si fermano qui. Lula passa con disinvoltura da un registro all’altro e modula la sua comunicazione in base al gruppo di elettori a cui si rivolge. Bolsonaro è più costante nell’inimicarsi le istituzioni e nel rappresentare i suoi sostenitori come la vera maggioranza.
D’altro canto, la disinvoltura del leader progressista va ricondotta anche al suo progetto politico: Lula ha costruito una coalizione volutamente anti-Bolsonaro, mettendo insieme varie parti dello spettro politico brasiliano. Dal Partito dei Lavoratori fino ai Verdi e al Partito Socialista, Lula ha cercato un campo largo, come lo definiremmo dalle nostre parti.
L’atteggiamento di Lula ricorda in un certo senso quello di Enrico Letta, imponendo agli elettori la scelta tra un “noi” e un “loro”, come nell’ormai celebre manifesto rosso/nero del PD. Vedremo se la scelta di Lula pagherà: se dovesse andare bene, si troverebbe sicuramente di fronte una coalizione non semplicissima da gestire. Inoltre, in Parlamento la presenza consistente dei gruppi di Bolsonaro potrebbe rendere la situazione molto meno governabile, soprattutto se come sembra il presidente uscente dovesse contestare l’esito del voto. L’ennesimo marchio di fabbrica populista.