Quand’è esattamente che un/una leader di partito diventa leader del Paese? L’occasione per Giorgia Meloni era ieri, alla Camera, con il discorso programmatico. Ebbene, ha confermato di essere un’efficacissima segretaria di un partito, mancando però il bersaglio grosso: parlare a tutto il Parlamento e quindi a tutto il Paese.
Un comizio più sofisticato di quelli che si fanno nelle piazze, comunque è bastato e avanzato per fare di quella di ieri una giornata storica per la destra italiana e per lei stessa, Giorgia Meloni, «l’underdog – come si è autodefinita – la sfavorita che deve sovvertire i pronostici», e qui giù la retorica – retorica peraltro giustificata – sullo sfondamento del tetto di cristallo, forse la mossa più azzeccata di tutto il discorso perché la forza «impattante» (parola che le piace) è nella sua immagine di donna, giovane donna, assisa sullo scranno che fu di Moro, Craxi, Andreotti, Berlusconi, Monti eccetera.
La differenza d’immagine è siderale, da sola varrà chissà quanti punti percentuali, specie se impreziosita da “confessioni politiche” rilevanti, come la strana abiura del fascismo «mai apprezzato»: comunque meglio di niente, dentro un discorso genuinamente di destra, nessuno se ne meraviglia ma ci si chiede se sarebbe stato possibile evitare di allargare il solco politico tra le parti.
Lei sfida tutti e sé stessa, grida e si commuove, inciampa in qualche gaffe ma non molla mai.
Probabilmente è troppo presto per il salto da segretaria a statista: avrà tempo perché a palazzo Chigi ci resterà un bel po’, al netto di sempre possibili Papeete – già Salvini straparla e Forza Italia si accapiglia per i posti, ha notato Matteo Richetti – perché non saranno certo queste opposizioni, almeno per come sono ridotte oggi, a mandarla via.
Nella parte sinistra del Transatlantico quanti musi lunghi! Persino i neo-grillini sono apparsi privi di smalto, nemmeno un’interruzione quando la premier faceva a pezzi il reddito di cittadinanza, giusto Giuseppe Conte ha alzato la voce mentre lei gesticolava e sorrideva ironicamente con un atteggiamento che non si confà a un/una presidente del Consiglio non deve assumere ma tant’è, mentre parlando in mattinata aveva assunto una postura e un tono molto sicuri di sé fino all’arroganza: io ballo da sola, lasciatemi fare, condurrò la nave italiana in porto malgrado «la tempesta». Magari non sa bene come – quale sarà, se ci sarà, la melonomics? – e quindi altro che draghiana.
Rinvii, silenzi, omissioni: sulla politica economica poco e niente, d’altronde è sulla parte identitaria che lei gioca le sue carte. Nel nome del ritrovato primato della politica, cioè il famoso mandato del popolo che quelli di prima non avevano, «tutto è permesso», come dice Ivan Karamazov, e per esempio se il presidenzialismo non starà bene alle opposizioni pazienza, Meloni lo farà lo stesso (anche se non ha i numeri per evitare il referendum confermativo, ma questo è un dettaglio).
Liberismo che piace a Berlusconi, fisco un po’ lasco che piace a Salvini, nazionalismo identitario che piace a lei: non è granché fantasioso questo mix meloniano al quale l’emiciclo alla fine ha tributato un «Giorgia Giorgia» da stadio più che da Camera dei deputati, e qui c’è un primo assaggio di una certa volgarità di destra romana mescolata a quella leghista-nordica, ma è il segno dell’affidamento degli eletti dal popolo a questa giovane donna che nella replica ha abbandonato del tutto l’aplomb istituzionale per tornare leader di Fratelli d’Italia.
Oggi loro sono i vincitori e hanno il sole in tasca, mentre gli altri, gli sconfitti, hanno il viso scuro di Enrico Letta che va giù duro. Ma ormai è tardi, l’Italia va a destra e lui non può più farci niente.