Giorgia Meloni ha chiarito – nella sua prima uscita pubblica davanti ai coltivatori che due anni fa avevano invece osannato Matteo Salvini, oggi isolato in platea ma con la felpa della Coldiretti – che la difesa degli interessi italiani nell’Unione europea (Ue) ruoterà intorno al concetto di «nazione» e che quindi la politica europea dell’Italia sarà dunque «nazionalista».
Pur sapendo che nel mondo ci sono nazioni senza Stato, che ci sono Stati con più nazioni ma anche Stati senza nazione, l’espressione usata da Giorgia Meloni sei volte a Milano è legata alla convinzione che la difesa della nazione sia strettamente legata al principio della sovranità assoluta (rex est imperator in Regno suo), al diritto del sangue (ius sanguinis), alla inviolabilità giuridica del territorio nel senso del primato del diritto interno rispetto a quello internazionale/europeo e, in definitiva, al concetto di una unica etnia culturale, linguistica e religiosa che una volta si chiamava razza.
Il capogruppo alla Camera di Fratelli d’Italia, Francesco Lollobrigida, prima su Repubblica e poi sul Foglio ha esplicitato dopo le elezioni del 25 settembre che è intenzione del suo partito tradurre in norme costituzionali il principio del primato del diritto italiano su quello europeo (e forse internazionale) modificando l’art. 117 e riservando al diritto europeo (e internazionale) il carattere eccezionale del primato a condizioni che solo gli Stati (sovrani) possano decidere di comune accordo rovesciando così la logica ormai condivisa da tutte le Corti costituzionali degli Stati (ivi compreso il Tribunale Costituzionale tedesco con varie sentenze su Maastricht e Lisbona e la Corte italiana che è andata al di là della nota dottrina dei «controlimiti») secondo cui la «normalità» è il primato del diritto europeo e l’eccezione è il primato del diritto nazionale.
Ciò è ancora più evidente con l’entrata in vigore della Carta dei diritti fondamentali dell’Ue applicata dai giudizi nazionali al di sopra delle leggi nazionali rendendo così tutte le cittadine e i cittadini europei ma anche tutte le persone che vivono sul territorio dell’Ue uguali di fronte alla… legge europea e sapendo che alcuni giuristi considerano addirittura la Carta superiore al Trattato di Lisbona.
Del resto, e al di là della Carta, il primato del diritto europeo è essenziale per salvaguardare l’unità del mercato interno e delle politiche dell’economia reale che ne garantiscono il funzionamento, le politiche su cui l’Ue ha una competenza esclusiva ma anche le politiche su cui l’Ue ha una competenza concorrente/condivisa e su cui la sua azione ha sottratto in specifici settori il potere di agire agli Stati.
Proporre di costituzionalizzare il primato del diritto della «nazione» significa immaginare di picconare l’edificio comunitario dalle sue fondamenta e rivendicare il ruolo esclusivo della nazione ma, chiedendo nello stesso tempo «soluzioni europee», significa destabilizzare il già instabile meccanismo di decisione europeo mentre prevalgono spinte sovraniste – come la decisione annunciata da Olaf Scholz – che possono creare gravi danni alla coesione europea mentre più consistenti nubi minacciose si addensano al confine fra l’Ucraina e la Russia.
Illuminante a questo proposito l’intervista rilasciata da Gustavo Zagrebelsky a Repubblica, che consigliamo alle nostre lettrici e ai nostri lettori, sulla «incompatibilità con l’Europa di una Costituzione in chiave sovranista».
Se Giorgia Meloni fosse veramente convinta che «non possiamo agire da soli» dovrebbe abbandonare il linguaggio nazionalista ad uso e consumo del nucleo duro della sua base elettorale e riflettere attentamente sul contenuto di politiche europee comuni a cominciare dall’unione dell’energia e dalla creazione di nuovo debito pubblico europeo – attraverso vere risorse proprie e titoli europei – per finanziare strumenti europei come quelli decisi per far fronte agli effetti della pandemia.
Rientrerebbe in questa logica sovranazionale la decisione di affidare alla Commissione europea il potere di iniziativa, al Consiglio e al Parlamento il potere di decidere se necessario a maggioranza qualificata quando si tratta di salvaguardare il funzionamento del mercato interno o di applicare l’art. 122 TFUE «delle misure appropriate alla situazione economica in particolare se delle gravi difficoltà sopravvengano nell’approvvigionamento in certi prodotti soprattutto nel settore dell’energia» fino a giungere «ad accordare a certe condizioni l’assistenza finanziaria dell’Ue allo stato membro coinvolto».
Rientra in questa logica la possibilità di attivare il nuovo Meccanismo Europeo di Stabilità (MES) la cui riforma è stata negoziata da tre ministri italiani (Tria, Gualtieri e Franco) e che attende l’ormai prossima ratifica tedesca ma su cui pesa il blocco parlamentare italiano legato alla ibrida ma populista alleanza fra Fratelli d’Italia, Lega e 5 Stelle e molti mal di pancia nella Sinistra Italiana ed anche nel PD.
Se necessario ed urgente, l’assistenza finanziaria per un paese come l’Italia, che non è in grado di creare un immediato e consistente debito pubblico come quello annunciato dalla Germania e non esistendo per ora altri strumenti europei di solidarietà, deve passare attraverso il MES.
Ciò vuol dire stringere alleanze solide nel Consiglio come è avvenuto con la lettera dei «Quindici» promossa anche dal governo Draghi insieme a quello francese e abbandonare il campo assai scomposto del Quartetto di Visegrad che può trovare delle sponde solo nel nuovo governo svedese e forse fra bulgari e rumeni ma certamente non fra le fila di chi vuole lavorare concretamente per soluzioni europee.
Condividiamo in questo spirito le settimanali riflessioni di Sergio Fabbrini sul Sole 24 Ore sulla due constituencies italiana ed europea con le sue conclusioni che richiamano indirettamente la schizofrenia di cui parlava Tommaso Padoa-Schioppa fra una sola economia europea (allora limitata all’Euro e al mercato) e venticinque sistemi politici di decisione nazionali.
Lo stesso discorso si pone nel Parlamento europeo dove Fratelli d’Italia (ECR) e Lega (ID) sono stati e sono ancora fuori dalla «maggioranza Ursula» che diede alla fine del 2019 la fiducia alla Commissione presieduta da Ursula von der Leyen di cui una delle priorità prima del Covid e della guerra era ed è ancora il Green Deal.
Il linguaggio di Giorgia Meloni a Milano e le dichiarazioni di Francesco Lollobrigida sono pessimi segnali nella direzione di un «pragmatismo europeista» per non parlare del «federalismo pragmatico» di cui aveva parlato Mario Draghi.
Ciò rafforza in noi la convinzione che debba essere fatto un enorme sforzo europeo per creare – al di là dei governi, tutti più o meno legati e paralizzati dallo scontro fra apparenti interessi nazionali – una progressiva alleanza di quei corpi intermedi che comprendano ciascuno per sé ma tutti insieme il valore aggiunto di politiche (policies) e di metodi di decisione europei (politics).
Ciò aprirà lentamente ma decisamente la strada ad un futuro consenso per la riforma dell’Ue che noi vorremmo fondata su un metodo costituente, sapendo che questo consenso oggi non c’è e che il tentativo di forzare la mano per una parziale riforma istituzionale dei trattati rischia o di fallire rendendo più difficile la futura riforma dell’Ue o di far compiere all’Ue un salto indietro con un Consiglio dove prevalgono le spinte centrifughe.