Caro direttore,
Mi riferisco all’articolo di Francesco Cundari ieri pubblicato da Linkiesta con questo titolo significativo: “Tartufismo democratico. Nel grande dibattito sulla rifondazione del Pd si parla di tutto meno che della guerra (chissà perché)”.
La tesi, cui guardo con ogni rispetto, è che quelle ambiguità del Pd si spiegherebbero con l’esigenza di tenere insieme il passato draghian-atlantista con il futuro nazaren-venezuelano di questo partito con tanti evidenti difetti e tante potenziali virtù: e di tenerli insieme, appunto, in forza di questo ammutolito presente.
Temo che sia una tesi consolatoria. Mi sembra cioè verosimile, ma insufficiente a spiegare il fenomeno, il fatto che il silenzio progressista sulla guerra sia tenuto con l’intenzione (con l’effetto, non si sa) di non urtare le profonde sensibilità pacifiste che inducono il professore Giuseppe Conte a non compromettersi con chiunque faccia anche solo pallida mostra di non condividerle. Stanno al livello, per vigore etico, delle alte idealità meridionaliste che hanno ispirato – ripagandola congruamente – la campagna elettorale di Capitan Graduidamende, e dato carburante alla gioiosa macchina da RdC che ha finalmente indicizzato il sinallagma, altro che il mezzo chilo di rigatoni.
Ma se il silenzio sulla guerra serve a non turbare le prospettive di rapporto con i Cinquestelle, tuttavia non è questo il motivo per cui il Pd vi si rinchiude.
Se le timidità dell’eloquio demo-progressista in argomento di guerra all’Ucraina (quella che il grosso dell’informazione italiana avrebbe una voglia matta di chiamare “operazione speciale”) fossero dovute soltanto al desiderio di fare manutenzione della temperie adatta all’affascinante avventura con lo schieramento post-vaffanculo e neo-denazificatore, allora non si tratterebbe che della miope spregiudicatezza di una tradizione politica sprensieratamente abituata ad abbandonarsi alla sragion di partito.
Ma si teme che non sia questo, o per meglio dire che questo non basti a spiegarla tutta. Quando si tratta di guerra, e proprio quando questa rinfaccia con chiarezza sempre più tragica le ragioni di chi aiutava l’aggredito e i torti (è un po’ soffice, chiamarli così) di chi voleva abbandonarlo al dovere morale della resa; proprio quando quelle ragioni sarebbero tanto più da sostenere, ora più che mai, e quei torti tanto più da condannare, ora più che prima, perché tutto quel che vediamo dice come l’aggressore avrebbe celebrato la pace pacifista reclamata dalla militanza della complessità; proprio quando, insomma, si rivela il profilo da Stato-Canaglia che avremmo assunto uniformandoci al protocollo due punto zeta, proprio adesso l’inibitoria della favella della sinistra costituzionale si fa più stringente. Troppo, perché sia solo questione di tener buoni i mentecatti.
E la realtà è che a far tacere il Partito democratico si pone un ritegno dovuto a faccende tutte domestiche, un impedimento che ha molto poco a che fare col paradiso perduto del campo largo e con la terra promessa di una joint venture cialtron-democratica consacrata in arbitrato thailandese.
A ostruire la voce che ci vorrebbe e a determinare il silenzio che si registra c’è, più gravemente ed esaurientemente, il sistema budellare di un partito che ha vissuto con malessere l’esperienza del governo Draghi, e ha risentito gravemente della dieta atlantista che il futuro non-candidato segretario si è costretto a imporre a una compagine compatta altrove e su altro, una comunità che ruminava il suo disappunto fino alla liberatoria esplosione nella verità dei capolista pro Hamas, nella denuncia delle inurbanità di Joe Biden e nell’appello alla requisitoria sindacal-vaticana che imputa paritariamente agli aggressori e agli aggrediti la mancata composizione pacifica.
Troppe parole, forse. Era per dire (mi cade meglio addosso) che nun è che so’ tartufi: è che so’ stronzi.