Il ruolo centrale degli HrLo smart working piace, ma ci sono alcune criticità da affrontare

Lo studio realizzato da Phyd e Radical Hr mostra le diseguaglianze tra Nord e Sud Italia e tra grandi e piccole imprese. «La riflessione sull’introduzione di modelli ibridi è sempre più necessaria in tutti i contesti lavorativi», dice Alessandro Rimassa. «Vediamo nascere nuove interessanti modalità di applicazione, destinate a cambiare il mercato del lavoro», spiega Andrea Malacrida

(Unsplash)

Il 75% delle imprese crede nello smart working, la metà ha già una policy e un quarto ci sta lavorando. Ma piccole imprese e Sud Italia restano ancora molto indietro nel lavoro agile.

È la fotografia scattata dallo studio “Smart working in Italia – scenari presenti e futuri” realizzato da Phyd, digital venture del Gruppo Adecco, e Radical Hr, piattaforma per la formazione continua e il networking dedicata ai professionisti delle risorse umane.

I dati – estrapolati da un questionario a cui hanno partecipato 600 professionisti Hr in 19 settori – dimostrano che, nonostante le resistenze di alcuni e la crisi energetica che potrebbe spingere i lavoratori a rientrare in ufficio per risparmiare sulle bollette, lo smart working è ormai entrato nel dna del mercato del lavoro italiano. Con il 25% delle imprese che lascia ai propri dipendenti totale libertà nella scelta dei giorni in cui lavorare al di fuori dell’ufficio. E in quasi un terzo delle aziende (26,6%), il numero dei giorni concessi ammonta a due su cinque.

Una conferma del cambio di passo culturale arriva anche dal fatto che la percentuale di aziende che non vogliono concedere lo smart working ai propri lavoratori è diminuito dal 14,1% dello scorso anno al 13,5% attuale. Le imprese credono in questa nuova formula di lavoro flessibile a prescindere dalla produttività, visto che solo il 30% l’ha misurata. Ma il 92% di chi l’ha fatto ha registrato un aumento dei livelli produttivi.

Un approccio positivo che sta spingendo sempre più le aziende a implementare policy per efficientare lo smart working. La metà ha già messo a punto programmi interni di lavoro agile, mentre il 22,2% è all’opera per farlo.

Ma la situazione non è uguale lungo tutto il territorio italiano. Ci sono grandi differenze che riguardano sia la collocazione geografica sia le dimensioni aziendali. Nel Nord Italia, le aziende che credono nello smart working sono il 78,5%. Al Sud il 37,5%: meno della metà.

Non solo. Se si guarda a quelle di grandi dimensioni, con più di 10mila dipendenti, il 68% ha già una policy aziendale sul tema. Al contrario, tra le aziende con meno di dieci dipendenti, il dato scende al 25%. 

Ma la ricerca evidenzia anche alcune criticità dell’applicazione del lavoro agile. Il 57,8% delle aziende dichiara che lo smart working rende difficile mantenere un buon livello di engagement delle risorse. Per il 56,6%, è difficile rendere attrattiva l’azienda e trattenere i talenti. Mentre il 48,5% fatica a trasmettere la cultura aziendale se si lavora a distanza.

Ma l’aspetto interessante è che, proprio per questo, il 63% delle aziende intende puntare sul rafforzamento dei valori aziendali. E che nel 65,3% dei casi, i responsabili Hr ritengono la propria funzione centrale per guidare gli amministratori delegati nelle scelte sullo smart working. Un dato che è rimasto invariato rispetto al 2021.

«La riflessione sullo smart working sta rapidamente giungendo a un nuovo stadio di maturazione», commenta Alessandro Rimassa, Founder di Radical Hr. «Lo dicono i dati della nostra ricerca, che tuttavia tracciano i contorni di un Paese ancora molto diviso». Nel frattempo, però, «alle persone lo smart working piace», sottolinea Rimassa, «tanto che la quasi totalità lo richiede, anche al Sud».

Benvenuto smart working, quindi. Ma occhio alle insidie dietro l’angolo. «Lo strumento si rivela in realtà molto più efficace per le figure più senior, aumentandone anche la produttività. Al contrario, è innegabile che possa generare alcune problematicità per le figure junior, rendendo più complesso trasmettere non solo la cultura aziendale, ma anche le skill necessarie per svolgere al meglio il proprio lavoro. La riflessione sull’introduzione di modelli ibridi, quindi, è sempre più centrale in tutti i contesti lavorativi, per riuscire a far dialogare le necessità di tutte le diverse parti coinvolte», sottolinea Rimassa.

Il problema, dice Alessandra Lupinacci, head of product di Radical Hr, è che i responsabili delle risorse umane, «pur ritenendo di avere un ruolo fondamentale e che la leadership debba dare loro il giusto ascolto, spesso non sembrano ancora pronti a gestire le nuove complessità che lo smart working mette loro di fronte e, cosa ancora più grave, non sono consapevoli dell’importanza strategica che la loro funzione deve avere in questa fase di trasformazione».

Ma gli esempi virtuosi ci sono. Il che dimostra che molto si può fare se si conoscono gli strumenti giusti e si investe nelle strategie più opportune, che possono variare anche in base ai periodi storici. Nello scenario attuale, spiega Andrea Malacrida, country manager di The Adecco Group Italia e founder di Phyd, «con i costi dell’energia che registrano crescite vertiginose, sia i dipendenti che le aziende si trovano a rivalutare le proprie priorità relativamente a questo strumento». In molti contesti però «vediamo nascere nuove interessanti modalità di applicazione, destinate in qualche modo a cambiare il mercato del lavoro. Se da un lato possiamo riportare l’esempio più tradizionale del Comune di Milano, che per ridurre i costi del riscaldamento propone lo smart working il lunedì e il venerdì e il lavoro in presenza gli altri giorni della settimana», prosegue Malacrida, «dall’altro iniziano a emergere esempi importanti di introduzione della settimana lavorativa breve, soluzione destinata, senza dubbio, a ritagliarsi sempre più spazio nel dibattito pubblico».

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