«Preferirei perdere che vincere grazie a promesse false». Rishi Sunak ci ha preso due volte. Sconfitto da Liz Truss al congresso d’estate, ora entra a Downing Street al posto della rivale, sfrattata proprio a causa delle politiche economiche avventuristiche. Il nuovo premier del Regno Unito, 42 anni, è il più giovane (un anno in meno di Tony Blair nel 1997) dell’era moderna e il primo di origine indiana e fede induista. Di lui, gli inglesi sanno soprattutto che è ricco, molto ricco. La tregua sul nome dell’ex cancelliere serve ai conservatori a salvare il salvabile, scongiurato il ritorno di Boris Johnson: la sua rinuncia non è un beau geste, ma preannuncia la scalata ostile al partito da qui alle prossime elezioni.
Le dimissioni di Truss, venerdì, hanno aperto una commedia degli errori. Un fine settimana da «shitshow», non occorre tradurre, a citare le fonti a palazzo dei giornali britannici. Per evitare la solita lotta tra bande, il Comitato 1922 dei Tories alza il quorum con un’investitura per acclamazione, solo poi verrà eventualmente consultata la base. Può candidarsi solo chi raccoglie il sostegno formale di cento tra i 357 parlamentari. Di fatto, ciò configura al massimo un tridente di possibili sfidanti. E il triangolo si disegna. La capogruppo a Westminster Penny Mordaunt, il rocambolesco ritorno di Johnson dalle vacanze oltreoceano. Infine, la riscossa di Sunak, rimpianto quanto mai amato.
I primi due passano giorni a millantare consensi che non hanno. Johnson ci crede. Di lui circola una foto al telefono, con l’aria non proprio riposata, da un ufficio della Millbank Tower, pieno centro di Londra. L’operazione è scandente: il ritorno da «salvatore della patria», peccato atterrasse da un esilio ai Caraibi e non dall’Elba di Napoleone, dopo l’«interregno» della fedele Truss. Infatti perde quota, e deputati, man mano che cresce il blocco favorevole all’ex ministro delle Finanze. Nonostante le ore al telefono, nelle riunioni su Zoom l’entourage di Boris cerca di convincerlo a lasciar perdere.
Cede quando capisce di rischiare di non superare la quota dei cento. Sunak veleggia, sono già con lui più di metà dei parlamentari. Sono dichiarazioni pubbliche, a differenza di quella maggioranza silenziosa vagheggiata da Johnson e Mordaunt, che si è ritirata ieri, incapace di radunare un esercito rimasto fantasma. Anche se si arrivasse all’ordalia del voto online tra gli iscritti, dove è più popolare, lo squilibrio di forze impedirebbe all’ex leader di governare, sempre ammesso riesca a riempire tutte le caselle di un esecutivo. Insomma, non è una questione di patriottismo: il «sacrificio» di Boris è solo un modo per non bruciarsi.
Il premier in pectore lo ringrazia con un tweet. Gli riconosce i meriti della Brexit e della campagna vaccinale, cioè quelli che hanno condiviso. «Spero sinceramente continuerà a contribuire alla nostra vita pubblica qui e all’estero» auspica Sunak, forse prefigurando una nomina. Il cinquantasettesimo primo ministro incarna una serie di prime volte storiche a Downing Street. Non bianco, di famiglia indiana e religione indù, il più giovane nella carica e tra i più veloci a conquistarla, con una carriera lampo, a soli sette anni dal suo ingresso a Westminster.
Non avrà un mandato popolare, ma quasi duecento deputati gli si accodano. È il quarto premier in meno di quattro anni per un partito in crisi, che ha esaurito da tempo la pazienza degli elettori, dei media, persino dei suoi militanti. In altre parole, ne ha sbagliate troppe per potersi permettere altri errori. Lui ha fama di «secchione», di perfezionista. Classe 1980, cresce Southampton, costa meridionale dell’isola, e dei «Saints» è un tifoso accanito. Nel weekend frequenta il tempio e lo stadio. Prima di trasferirsi in Gran Bretagna, dove si conoscono, i suoi genitori sono nati in Africa, rispettivamente in Kenya e Tanzania, ma da famiglie indiane.
Il padre è medico, la mamma farmacista. Per un po’, lui farà consegne di farmaci in bicicletta. Scuola privata, però non la Eton che sforna venti premier. Va a Winchester: sarà l’unico primo ministro ad aver studiato lì dai tempi di Henry Addington (1801-1804). Università, indirizzo economico, a Oxford e un master a Stanford, dove conosce la futura moglie, la figlia del miliardario indiano Narayana Murthy (ci torneremo). Più della politica – un amore tardivo – gli interessa far soldi e sùbito: dopo la laurea va a lavorare alla Goldman Sachs.
È eletto in Parlamento nel 2015, nel collegio di Richmond, North Yorkshire, su cooptazione del deputato uscente ed ex capo del partito, William Hague. Al referendum del 2016, si schiera per la Brexit, con rimpianto di David Cameron. Vota tre volte la fiducia a Theresa May, poi passa sulla scialuppa di Johnson, che lo premia promuovendolo sottosegretario al Tesoro e poi ministro, nel rimpasto di febbraio 2020. Giusto prima della pandemia. Pronuncia un suo «whatever it takes» e stanzia 350 miliardi di sterline di aiuti a imprese e cittadini in difficoltà.
È il suo momento d’oro, qualcuno inizia a vedere in lui un potenziale successore. Poi la sua stella si appanna. La sua campagna «Eat Out to Help Out», cioè l’incoraggiamento ad andare al ristorante per far ripartire il settore, sarà collegata a un’impennata dei contagi. Verrà multato (appena 50 sterline), ha violato il lockdown per partecipare al compleanno di Johnson. Insomma, una comparsata nel partygate. Viene fuori che la sua consorte, Akshata Murty, ha mantenuto la residenza fiscale all’estero. Lui stesso non aveva (ancora) rinunciato a una green card negli Stati Uniti, ma respingerà le voci – mai confermate – di evasione nei paradisi delle British Virgin Islands e delle Cayman.
A luglio, si dimette subito dopo il ministro della Sanità, Sajid Javid, e i johnsoniani non gli perdonano il «tradimento». D’estate, costruisce una piattaforma di responsabilità, innanzitutto finanziaria. Va evitato il tracollo dell’economia britannica, dice, e stronca i progetti di Truss. I mercati gli daranno ragione. Anche ora, posiziona la sua leadership come il tentativo di unire il partito e la nazione di fronte alla crisi. È a favore dell’incremento delle spese militari e del controverso piano di deportare gli immigrati irregolari in Ruanda. Ci si aspetta la conferma di Jeremy Hunt allo Scacchiere.
Il paradosso di questo fan di Guerre Stellari e dei film di James Bond (tendenza Roger Moore), nessuna vacanza in due anni da ministro, è essere lo stesso una figura divisiva. Almeno fino a ieri. «Dal punto di vista politico, è una contraddizione: è un conservatore di centrodestra che ha cercato appoggi nel centro e nella sinistra del partito» scrive il Financial Times. È stato incoronato senza dover spiegare come intenda governare e, soprattutto, senza nemmeno la farsa di una consultazione tra i membri dei Tories. I suoi scandali fiscali, poi, sembrano «in miniatura» solo al cospetto di quelli di Johnson e al naufragio di Truss.
Di fronte al Comitato 1922 ha sfoggiato il sorriso delle grandi occasioni. L’hanno festeggiato, standing ovation. Le priorità: restare al fianco dell’Ucraina, aiutare le famiglie a pagare le bollette questo inverno. «Abbiamo una sola chance. Uniti o si muore». Promette umiltà e integrità. Diventerà ufficialmente premier dopo il rito da cerimoniale, con Re Carlo III a chiedergli di formare un esecutivo. Sarà di grandi intese, ma dentro lo stesso partito: la compattezza come exit strategy, per sventare un tracollo elettorale.
In base alle leggi della statistica nessun evento è improbabile, ma Sunak mastica abbastanza bene la matematica da rendersi conto che le probabilità di ribaltare i pronostici non sono alte. Farà meglio di chi lo ha preceduto, soprattutto per i demeriti altrui. La vera cosa (quasi) impossibile è fare peggio.
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— Conservatives (@Conservatives) October 24, 2022