Populismo is coming home In quanto a instabilità politica il Regno Unito non è la nuova Italia, è peggio

Il governo (commissariato) di Truss implode dopo appena sei settimane, mentre si vocifera di un ritorno di Boris Johnson. Il Paese è ormai ostaggio del partito conservatore: sono le conseguenze della Brexit

AP/Lapresse

Ha vinto l’insalata. Era una diretta semiseria del tabloid Daily Star: da un lato la foto di Liz Truss, dall’altro un ciuffo di lattuga. «Chi durerà più a lungo?» la domanda. Assurda, ma non troppo, quando il governo della prima ministra iniziava ad avvitarsi verso l’implosione, tra manovre di cui veniva disconosciuta la maternità e bocciature sui mercati. È ironico anche che Truss annunci le dimissioni nel giorno in cui l’Economist la ritrae in copertina battezzando, con poca originalità e una settimana di ritardo sul Telegraph, la nascita di una presunta «Britaly». No, il Regno Unito non è diventata una nuova Italia: la politica inglese sta facendo molto peggio. Per una volta, l’accostamento è infamante, ma per noi.

Su una cosa, invece, il settimanale ha ragione. «È diventata come il gatto Larry: vive a Downing Street ma non ha potere». Una differenza con la mascotte è invece che – anche senza adottare conversioni tra anni umani e animali – il felino ci ha vissuto più di lei e, a dire la verità, degli altri premier espressi dai Tories da David Cameron in poi. È vero il contrario: il tempo, per questa cosplayer di Margareth Thatcher, scorre a una velocità anomala. Un giorno da Truss, almeno in queste sei settimane di delirio, è equivalso ai mesi di un capo di Stato normale.

Vince le primarie dei conservatori su Rushi Sunak, che ha ordito la congiura contro Boris Johnson e forse avrebbe fatto una figura migliore. Va a giurare nelle mani della Regina e la foto di rito nel salottino di Balmoral, Scozia, diventa l’ultima della vita pubblica di Elisabetta II. Le due settimane del cerimoniale per l’addio alla sovrana, di lutto collettivo e nazionale, trauma da cui riprendersi ancorandosi all’etichetta e all’estetica un po’ kitsch del post-impero, sono le uniche in cui Truss non fa danni. Anche perché non potrebbe.

Ai funerali di the Queen, legge un salmo. Abito nero, di cordoglio. Non può immaginare quanto poco manchi al requiem pure del suo esecutivo. Un progetto di rilancio che è nato morto. I suoi primi discorsi, piatti e banali, appassiscono mentre Johnson, tornato deputato semplice, tesse orazioni a Westminster. Forse un giorno di Boris ricorderemo questo: una prosa da statista, evidenti problemi con la prassi. Da quando entra al numero 10 di Downing Street, la nuova inquilina riesce a demolire la reputazione che si era costruita da ministra degli Esteri.

Aveva fama di «falco», Londra veniva classificata dal Cremlino tra i peggiori nemici. Poi una leadership da operetta. Dopo un programma economico da scontro frontale con i mercati, passa il volante al cancelliere dello Scacchiere, Kwarsi Kwarteng. Lui, suo vecchio alleato, si sacrifica. In mezzo, le voci su brindisi di champagne con nomi grossi della City, l’equivoco se l’ha licenziato o se ne è andato lui, le interviste con emittenti locali che dovevano servire a riabilitare la prima ministra, ma la azzoppano definitivamente. In panne di fronte ai giornalisti, incespica, «scusi non ho capito», non convince.

«Deliver, deliver, deliver» era il motto scandito sul palco della convention dei conservatori, alla sua effimera vittoria. Ma non è stata in grado di realizzare nulla. In campagna, il rivale Sunak aveva bollato come «fantascienza» le sue ricette economiche. Negli archivi, apparterrà proprio a quel genere il mini-budget sognato in tandem con Kwarteng. Doveva essere il più grande taglio delle tasse dagli Anni Settanta, aveva il difetto di abbassarle ai più ricchi oltreché alla working class. Passerà alla storia come la falla che ha fatto sprofondare la sterlina ai livelli più bassi di sempre nel cambio col dollaro.

La nomina a cancelliere dello Scacchiere di Jeremy Hunt viene venduta alla stampa come un segnale di inclusione: una concessione all’ala moderata del partito. Hunt ritira sùbito il piano. Di fatto, il governo Truss viene commissariato. Rimette il mandato, allora, perché non è (lo è mai stata?) più nelle condizioni di mantenere le promesse agli elettori. Cioè a quella ridicola frazione della popolazione, i 160mila membri dei Tories, che potrà decidere anche il successore. In alternativa, lo sceglieranno i deputati. Fa una grossa differenza: un conto sono le truppe parlamentari, quelle che hanno salvato Johnson a più riprese o gli devono il seggio, un conto la base.

I tempi? Una settimana, entro il 28 ottobre. I nomi? Si sprecano. Hunt lo esclude, è un classico; potrebbe correre Suella Braverman che ha lasciato l’Home Office appena due giorni fa in polemica con Truss sull’immigrazione. La stampa riferisce di un possibile ritorno in campo di Johnson, motivato dal diretto interessato come una questione di «interesse nazionale». I suoi fedelissimi rimasti al potere potrebbero sostenere la narrativa da «salvatore della patria», alla Cincinnato (a lui piacerebbe la metafora). Quell’«Hasta la vista, baby» pronunciato in aula assurto a self-fulfilling prophecy.

Boris ora si trova nella Repubblica Domenicana. Tornerà dalle ferie. Un sondaggio di YouGov lo darebbe in vantaggio su Sunak, 32 punti a 23. Sunak, sconfitto quest’estate, sarebbe la scelta più naturale – cosa che non sempre in Inghilterra coincide con quella più probabile – per un esecutivo di transizione. Piace ai deputati e alla finanza, ma in passato non ha conquistato il cuore degli iscritti. Anche per questo, le modalità della votazione incideranno parecchio su chi sarà il futuro primo ministro.

Saranno consultazioni ancora via posta o online? Da quanto trapela, il Comitato 1922 – il potente organo di autogoverno dei conservatori – potrebbe indicare a cento la soglia di cento sostenitori per candidarsi. A fronte di 357 parlamentari, si configurerebbe al massimo una triade di sfidanti. Ciò potrebbe innescare una dinamica da «incoronazione», con la selezione a porte chiuse e poi un solo nome. La frangia più a destra, lo European Research Group (Erg), insiste per una figura in discontinuità con il passato. Nella rosa degli ipotetici favoriti, va considerata pure l’attuale capogruppo a Westminster, Penny Mordaunt.

Intanto, il leader laburista Keir Starmer chiede di tornare al voto. Se accadesse, la sinistra potrebbe riconquistare Downing Street dopo più di dieci anni, perché nei sondaggi è saldamente (con un vantaggio a due cifre) davanti ai Tories in caduta libera. Proprio per questo, la maggioranza farà di tutto per evitare le elezioni anticipare (le prossime sarebbero nel 2023) che sarebbero una disfatta. Il Regno Unito è ostaggio di un partito condannato a continuare a rinnovare la risposta alla domanda «Si può fare peggio di così?». Sembrava impossibile, dopo la stagione pirotecnica di Johnson.

Così i media britannici rispolverano i paragoni con il nostro Paese, come sinonimo di instabilità politica. Oltre ai luoghi comuni, ormai introiettati, sul cibo e il sole, citano la crescita economica e demografica al palo, la faglia tra Nord e Sud, l’«accanimento» delle agenzie di rating. Persino la Brexit, nell’editoriale del Telegraph che ha aperto il dibattito, viene dipinta come un tentativo di sottrarsi a quel destino italiano, forse inesorabile. Non basta, però, conteggiare la frequenza dei governi, con assetti istituzionali e leggi elettorali talmente diversi, per far sfociare il Tamigi nel Mediterraneo.

C’è quel particolare di un referendum secessionista e dell’uscita da un’Unione europea di cui Roma fa ancora parte. Quella rivoluzione continua a «divorare i suoi figli», ha scritto un veterano come Andrew Marr.

È il cataclisma da cui l’isola non si è più ripresa: causa e allo stesso tempo effetto della deriva della politica britannica che l’ha preceduto e seguito. Non c’entrano le suggestioni latine, o sudamericane, se un primo ministro dura solo 45 giorni (nuovo record, quello precedente era di George Canning nel 1827, però aveva l’«alibi» di essere morto di polmonite). Ci sono piuttosto un deficit di legittimità di una classe dirigente inadeguata, un correntismo tribale, l’occupazione delle cariche nonostante gli scandali. In una riga: il sovranismo reale. Il resto sono pregiudizi vagamente razzisti.

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