Tra le molte cose compromesse irreversibilmente dall’invasione russa dell’Ucraina, c’è il Gruppo di Visegrád. Anche per via dell’ambiguità filo-putiniana del suo azionista di maggioranza, l’Ungheria, si è incrinata la compattezza di un quartetto che cerca di rilanciarsi invitando la Slovenia, per anni sulla porta. Un’offerta fuori tempo massimo, ditegli che a Lubiana c’è un governo europeista. Con Repubblica Ceca e Slovacchia in una fase post-sovranista e una Polonia fermamente atlantista, è diminuito il peso specifico di un format che non è mai riuscito a diventare un forum regionale. Sta fallendo il piano di Viktor Orbán per costruire un centro di potere antitetico a Bruxelles.
La guerra scatenata dal Cremlino ha aperto una faglia interna. La sigla V4, secondo gli analisti, rischia di spezzarsi in un «V 2+2». Un riassestamento era già in corso. Da una parte l’asse illiberale tra Varsavia e Budapest, dall’altra Praga e Bratislava decise ad archiviare la fase di contrapposizione con le istituzioni comunitarie. Dopo il 24 febbraio, la Polonia ha sposato la difesa della democrazia ucraina: in prima linea nell’accoglienza dei rifugiati, ha inviato – come Cechia e Slovacchia – armi pesanti a Kyjiv. Nel frattempo, Orbán temporeggiava. Con i suoi veti, ha rallentato le sanzioni e la risposta dell’Ue.
Non è una frattura che si può ricomporre a tarallucci e vino, o col loro equivalente mitteleuropeo. A marzo, proprio per la condotta magiara, è saltato il vertice tra i ministri della Difesa di Visegrád, previsto a Budapest, e quest’estate Bratislava si è sfilata dalla collaborazione in termini di Politica estera. Ad aprile Fidesz avrà anche vinto le elezioni con la solita percentuale plebiscitaria, ma il suo dominus non è mai stato così isolato. Non solo nella dimensione continentale, che era convinto di poter piegare dosando ricatti e compromessi, ma pure nella lega delle nazioni di cui si pensava condottiero.
Fin dal nome, Visegrád affonda le radici nell’epica di un incontro tra i re di Ungheria, Boemia e Polonia per un patto in funzione antiasburgica. A parte la valenza mitopoietica, accusa però la concorrenza di altre finestre di dialogo. Tra queste, come scrive Foreign Policy, ci sono il Triangolo di Weimar, di Germania, Francia e Polonia; la cooperazione tra Austria, Repubblica Ceca e Slovacchia scaturita dalla Dichiarazione di Slavkov (l’antica Austerlitz) e l’Iniziativa dei tre mari, un forum di 12 stati dell’Ue di cui fa parte pure l’Italia che arriva fino al Baltico e gode dell’appoggio americano.
Nonostante una crisi evidente, e le divisioni taciute dietro i sorrisi delle photo opportunity, al primo vertice del Gruppo dall’inizio del conflitto in Ucraina si è parlato di un’espansione. Una specie campagna acquisti. A Bratislava, il presidente ceco Miloš Zeman ha fatto il nome della Slovenia. Zeman ha pure rebrandizzato l’aiuto ai profughi ucraini come un contrasto ai «tentativi di redistribuzione di migranti illegali», vecchio chiodo fisso del V4. Il capo di Stato slovacco, Zuzana Čaputová, invece ha rinfacciato ai presenti la loro ipocrisia sugli aiuti militari a Kyjiv.
Il quadrato (che è stato un triangolo fino alla scissione della Cecoslovacchia) è nato nel febbraio 1991 pochi mesi prima dell’indipendenza slovena di giugno. Dal 2001 al 2015, Lubiana è stata invitata a numerosi incontri. Si iniziava già a parlare del formato «V4+1», o «Visegrád plus», ma è esterna, non ha piena cittadinanza nel club. Ai soci storici, che non hanno sbocchi sul mare, avrebbe portato in dote lo strategico porto di Capodistria. Nel 2017 figura a Budapest assieme a Croazia e Austria, in un possibile allargamento del Gruppo che naufragherà quando l’Ungheria si guadagna una reputazione tossica nella lotta (eufemismo) all’immigrazione.
Il governo sloveno di oggi, guidato dal verde Robert Golob, guarda più a Bruxelles che a Budapest. Tra l’altro, il 28 ottobre si terranno le presidenziali e il partito del primo ministro (il Movimento per la Libertà, o GS), in testa nei sondaggi, non ha ancora espresso un candidato, dopo la rinuncia di Marta Kos. È favorita l’avvocatessa Nataša Pirc Musar, corre da indipendente. Se la giocano anche Anže Logar, ex ministro degli Esteri che vorrebbe ereditare da Janez Janša il timone dei Democratici, e il socialdemocratico Milan Brglez, su cui potrebbe convergere GS.
Intanto, Praga è orgogliosa del semestre alla presidenza dell’Ue. La piattaforma di governo di Petr Fiala, però, non è monolitica. Lo sostiene una coalizione a trazione centrista, ma lui è leader del Partito Civico Democratico che a Strasburgo siede tra i conservatori di Ecr. È la stessa famiglia di Legge e Giustizia (PiS), al potere in Polonia. Il regista occulto di Varsavia è considerato Jarosław Kaczyński: non ha ruoli di governo, ma è ancora l’uomo forte del partito. Ambiscono a prendere il suo posto sia l’attuale premier, Mateusz Morawiecki, sia il presidente della Repubblica, Andrzej Duda.
Questa “diarchia”, paradossalmente, rende Orbán un interlocutore più solido con cui trattare per Bruxelles. Visto il controllo verticale che esercita sulla nazione, è un referente univoco, anche se cinico e su posizioni da lobbysta del Cremlino. Da tempo, l’opposizione chiede di non congelare i fondi all’Ungheria, ma di assegnarli direttamente alle amministrazioni locali, meno esposte alla corruzione dell’esecutivo centrale. Ogni patto con lui, però, lascia sul terreno concessioni pericolose.
Gli egoismi incrociati producono veti a perdere. E Visegrád rimane un gruppo a carattere regionale, da cui i contraenti vorrebbero affrancarsi, che fatica a incidere sull’agenda continentale. Al di fuori del sabotaggio, ovviamente. Per questo, ha meno attrattiva il goffo tentativo di fare calciomercato per tornare a contare qualcosa. Sempre salvo clamorosi colpi dell’ultimo minuto, come l’Italia governata da Fratelli d’Italia, alleata di Orbán e Kaczyński in Europa.