Capitalismo carnivoroLa carne è diventata una delle principali cause di conflitto internazionale

Le crisi finanziarie ed ecologiche che stiamo attraversando ci impongono di riconcepire i piatti che mettiamo in tavola. Un sistema che utilizza il 70% delle terre agricole coltivabili del pianeta esclusivamente per lo sfruttamento animale non è più sostenibile

unsplash

Il cibo è un abile persuasore occulto. Attraverso un piatto, sia esso una semplice ciotola di latte e cereali mangiata in solitudine davanti a uno schermo, o il buffet che anticipa la sfarzosità di un matrimonio mediterraneo, si esprime, e soprattutto si introietta, un sistema di messaggi ben precisi. Chi siamo, che ruolo abbiamo nella società e come dobbiamo comportarci.

La potenza di ciò che mangiamo viene in parte dalla sua invisibilità e dal suo ripetersi incessante. Si parte da un’ovvietà: dobbiamo mangiare per vivere, un istinto primordiale che solo una certa caparbietà di monaci e sante è riuscita a sublimare a forza di meditazione. Il cibo ci ancora al nostro corpo; basta saltare un solo pasto per cominciare a sentire i primi campanelli di allarme dati da nervosismo e stanchezza.

Il suo essere necessario spesso lo copre di trivialità, di comparsa muta nelle nostre giornate, se non del solo appagamento fisico. E nonostante sia una forma di linguaggio con una sua grammatica e regole ben precise, essendo un’attività che si ripete, giorno dopo giorno, il suo simbolismo tende a sfumarsi, a rimanere sottotraccia, come il profumo di casa propria, che si nota solo dopo essere mancati a lungo.

Il suo potere smette di essere silente nel momento in cui accade qualcosa che metta in discussione proprio il sistema di codici che porta con sé. Basta la scoperta della presenza di un unico commensale vegano a cena che, con alta probabilità, l’attenzione dell’intera tavolata virerà di colpo sulle sue scelte alimentari.

Rappresenterà una deviazione da ciò che viene percepita come la norma e farà sentire gli altri commensali in diritto di passare al setaccio tale scelta.

Perché tra tutti gli alimenti noti alla civiltà umana, la carne è ancora oggi la protagonista indiscussa. Suo il boccone dalla carica simbolica più potente. Densa di energia, rara e complicata da procacciare, facile alla putrefazione, fin dagli inizi della nostra storia, la carne ha giocato un ruolo chiave, non solo da un punto di vista nutritivo, ma anche nel definirci esseri diversi da tutti gli altri, in grado di compiere gesta meritevoli di memoria futura, come mostrano le prime pitture rupestri rappresentanti la caccia, il cui primo inchiostro era forse il sangue delle stesse fiere abbattute. È un ingrediente che inevitabilmente ci mette di fronte ai processi di vita e di morte, di scambio e reciprocità tra la sfera del visibile e degli spiriti.

Ovunque nel mondo, intorno alla caccia, e più avanti alla macellazione degli animali allevati, si è creato un sistema di riti complessi e di figure speciali che ne potessero prendere parte.

Macellai, boia, sacerdoti, individui appartenenti a caste reiette oppure temute erano tra i pochi incaricati di porre fine a una vita e di contaminarsi con la morte, per il beneficio dell’intera comunità. Piogge di editti, divieti e moniti, testi sacri, scritture delle religioni di tutto il mondo hanno tentato di controllare la carnalità dei loro credenti, tanto quanto quella che poteva

finire sulla loro tavola, sentenziando di quali animali cibarsi, delineando periodi di astinenza, come la cattolica quaresima, oppure le modalità di macellazione, come quella Halal o Kosher. Solo l’alcol, con il suo potere inebriante in grado di innalzare il nostro spirito quanto di schiacciarlo in infiniti abissi, ha goduto di una simile attenzione nella storia dell’umanità.

Ma anche a livello laico, la lussuria, la mortificazione, la mercificazione delle membra e l’ascetismo sembrano tutti accendersi o spegnersi alla presenza della carne, specialmente se rossa, e grondante di sangue.

Un tempo lusso per pochi, dal dopoguerra in poi, con l’aumentare del tenore di vita e l’abbassarsi dei costi di produzione, sempre più persone sono state in grado non solo di ambire a ciò da cui per generazioni erano rimaste escluse, ma di appropriarsene, di rendere la carne cibo del popolo quanto del re. Eppure, nonostante la sua diffusione e ubiquità, a torto o meno, la carne rimane l’unica sacerdotessa ancora considerata capace di trasformare un misero pasto in un rituale.

L’antropologo Claude Lévi Strauss, attraverso l’analisi di un antico mito indigeno brasiliano, intuisce ed elabora per primo l’idea che il modo in cui una certa società cucina possa fungere da lente per analizzare la sua struttura più profonda, e che la cottura della carne sia la sua chiave di lettura più potente.

Dove prevalgono mitologie legate all’arrosto, con le sue braci ardenti, il crepitio del grasso e il sangue che si mescola alle ceneri ancora calde, Lévi Strauss identifica popoli dai temperamenti bellicosi, celebranti l’atto della caccia così come della distruzione dei gruppi nemici. Graticole, spiedi e forconi sono ancora oggi tra i reperti di cucina che gli archeologi trovano nelle corti imperiali e altri luoghi dove risiedeva il potere politico in Europa, non nelle case dei comuni plebei.

Nei tuguri dove viveva il popolo, nei cortili, nelle stamberghe designate al ristoro dei viandanti, seppelliti da metri di polvere e fango, si trovano una moltitudine di ciotole, coppe e scodelle, pronte a contenere un caldo brodo. Al fuoco delle braci Lévi Strauss contrappone infatti la domesticità del bollito, leggendovi un’inclinazione familiare di cura della comunità intera, compassionevole, là dove le scintille del fuoco prefigurano la guerra.

Nel preparare la carne bollendola, essa ugualmente cuoce, ma mantiene i propri succhi, insieme a quelli degli altri ingredienti con cui viene cucinata, come verdure e cereali. Anzi, in tale contesto, la carne ricopre addirittura un ruolo marginale, ne basta un piccolo pezzo per donare sapore, e addirittura se ne può fare anche a meno, se si ha qualche osso.

Una tipologia di preparazione, dunque, conserva nelle ristrettezze, mentre l’altra brucia e consuma un’abbondanza inaspettata seppur effimera. La prima casalinga come una zuppa calda a fine giornata, l’altra celebrativa, occasionale, come i nostri barbecue domenicali.

A un livello ancora superiore, Lévi Strauss identifica proprio nell’atto della cottura, che richiede il dominio del fuoco, il passaggio cruciale dell’uomo dalla sfera della natura a quello della cultura. È nel muoversi tra il crudo e il cotto, anzi, tra la carne consumata cruda e la carne cotta, che l’uomo non solo si differenzia da tutti gli altri animali, ma comincia a vedersi al di sopra di essi, incoronandosene trasformatore, architetto, e infine padrone. La carne diventa dunque il simbolo della vittoria dell’uomo su tutto il resto.

«Il Barbecue è un diritto non un privilegio. Bigger is better. Niente scuse. L’uomo è in cima alla catena alimentare. Arrostisci di conseguenza.» Questa, la frase d’attacco del libro di ricette della Marlboro, Cook Like a Man. Il cui sottotitolo recita: «L’ultima arte dell’uomo». Credo sia difficile oggi trovare un concentrato di slogan e luoghi comuni migliore di questo per ammiccare ad aspiranti John Wayne.

Il messaggio arriva forte e chiaro. In una società in cui i ruoli si fanno sempre più fluidi, in cui il dominio assoluto di spazi politici, economici e sociali a solo appannaggio maschile iniziano a vacillare, un solo territorio rimane sicuro per il re della giungla urbana moderna. Nascosta nel giardino o nel retro dell’abitazione, brilla una grata sopra la quale sfrigolano salsicce e hamburger.

La guida della Marlboro sembra indicare che quello spazio sia un diritto da reclamare, uno luogo sacro in cui sentirsi di nuovo «in cima alla catena alimentare», tra una birra e l’altra. Certo, il genere è un costrutto sociale e culturale, un insieme di azioni e significati performativi che sono specifici di un determinato luogo e periodo storico. Ma vi sono degli stereotipi attaccati al mondo del cibo che a loro volta nutrono questo costrutto e le sue gerarchie; come messaggi persistenti, servono a mantenere lo status quo della società. Sono inoltre molto efficaci, proprio perché quotidiani e sottotraccia.

Il marketing della Marlboro sa come tranquillizzare il moderno maschio mesto, spingendolo a riappropriarsi della carne come il mezzo per mostrare la propria virilità. Così, il potere di tali costrutti sociali si serve anche delle consuetudini alimentari per mantenersi intatto. E ciò si evince soprattutto quando travalichiamo certi spazi. Alle bambine viene insegnato presto che a tavola è meglio non apparire troppo voraci, e che l’appetito va controllato.

Introiettano che a tavola, come altrove, bisogna stare tranquille e composte. Scavo nella memoria nella miriade di rappresentazioni televisive in cui è stato mostrato un primo appuntamento tra una coppia etero. Non riesco a ricordare una scena in cui la ragazza venga rappresentata mentre ordina una bistecca al sangue. Al contrario, cosa succederebbe se durante una cena post calcetto un giovane ordinasse un’insalata, o delle semplici verdure?

L’appetito maschile è considerato indice di buona salute, di spirito allegro, di entusiasmo verso la vita, e di prestanza fisica. La bramosia per la tavola può tradursi in appetito sessuale, che al contrario del caso femminile qui è ben concesso e accettato, quasi preteso. Ma allora, alla richiesta di un piatto vegetariano, i compagni di squadra se ne accorgerebbero? E di quale natura sarebbero i loro commenti?

Al contrario della carne, le verdure sono ancora relegate a vassalli o contorni, inadatte a chi dovrebbe sostenere il dominio della società patriarcale. Sono scenari facili da immaginare, ci siamo trovati tutti almeno una volta nella vita a un pranzo in cui qualcuno, o noi stessi, abbiamo deciso di superare le strette mura delle aspettative sociali entro cui dovevamo stare. E le conseguenze non si saranno fatte attendere.

Ciò che mangio dunque diventa un messaggio per gli altri, un tesserino identificativo che mi colloca in un determinato spazio della società in cui sto vivendo, come nell’esempio che segue e che ho vissuto pochi anni fa, sempre nel continente asiatico, ma in un contesto del tutto differente da quello del Bengala occidentale.

«Quelli sono i mangiatori di ratti!» urla il mio compagno di viaggio indicando in lontananza un gruppo di adulti e bambini, intenti a impilare dei fasci di riso appena tagliato in un’ordinata capanna di paglia. Li guardo scomparire all’orizzonte, e poco dopo ne compaiono altri, nelle distese dei campi di riso che il pullman su cui viaggiamo attraversa, disturbandone la quiete momentanea come fa un sasso scagliato in un acquitrino. Gurratan è un fiume in piena, un uomo minuto che tuttavia sembra contenere a fatica l’energia del mondo, ci tiene ad aiutarmi a decifrare i segreti di un paesaggio che altrimenti riuscirei ad apprezzare solo da un punto di vista estetico.

Sono nel sud del Nepal per raccogliere informazioni su delle varietà di semi tradizionali preservati in villaggi sperduti che potrebbero resistere ai prossimi cambi climatici, e lui è l’uomo giusto per questa missione. Ha capito che con me ha terreno fertile per sfoggiare la sua conoscenza del paese, e non ha perso l’occasione quando un particolare agglomerato di persone è comparso come un riverbero, per pochi istanti, ai bordi dei campi lucidi. Uno sguardo veloce bastava a comprendere il motivo di quel nome, i Mushar, letteralmente i mangiatori di ratti, una delle caste più basse che vivono nelle pianure del Nepal, che ancora oggi registrano tassi di alfabetizzazione a una sola cifra, vestono di stracci, per abitazioni hanno tende di fortuna o baraccopoli che spostano in base ai tempi della raccolta, e gli zigomi pronunciati di chi non riempie lo stomaco tutte le sere.

Come strategia di sopravvivenza, nella storia, questa casta aveva spesso fatto affidamento sulle carni dei ratti che infestavano le risaie che coltivavano per conto delle caste più alte. Animali più nobili erano destinati a ceti più elevati, e ancora una volta, nel ripetersi delle abitudini culinarie, la pratica diviene marchio identitario, o di stigma.

La carne è dunque un luogo, un sito poroso dove le identità mutano, dove la politica trova un riverbero, dove la razza, il genere, l’etica, la religione e la sessualità si mescolano, rivelandosi a tempi alterni. Definizioni che scivolano di continuo, come la stre di ghiaccio spezzate in un lago si ribaltano, si assottigliano fino a incastrarsi con altre, finiscono in mille pezzi, sciogliendosi o cristallizzandosi con il nuovo freddo. E il suo potere di mostrare le complessità e le contraddizioni del mondo di oggi aumenta quanto decidiamo di darle attenzione.

Capitalismo carnivoro, Francesca Grazioli, il Saggiatore, 208 pagine, 17 euro

Entra nel club, sostieni Linkiesta!

X

Linkiesta senza pubblicità, 25 euro/anno invece di 60 euro.

Iscriviti a Linkiesta Club