Come alle origini di Roma, alle origini dell’editoria libraria italiana del Novecento ci sono due gemelli, o quasi.
Come può succedere, e a volte succede tra gemelli, si odiano cordialmente per tutta la vita. Il primo chiama il secondo «quel gangster», il secondo si rifiuta anche solo di pronunciare il nome del primo. Angelo Rizzoli e Arnoldo Mondadori nascono a distanza di due giorni sul finire del 1889 e a distanza di otto mesi muoiono, entrambi ottantunenni. Sempre per primo Rizzoli, in nascita e in morte. Entrambi proletari, con le pezze sul sedere.
Povero Mondadori, figlio di un contadino e calzolaio ambulante, analfabeta fino a cinquant’anni. Poverissimo Rizzoli che addirittura nasce già orfano perché suo padre, ciabattino e anche lui analfabeta, sconvolto da un licenziamento è andato mesi prima a uccidersi. Al cimitero di Musocco, per maggiore comodità. Le origini infime verranno più volte e orgogliosamente rivendicate da entrambi («una miseria nera, che non si può immaginare» dirà Rizzoli), secondo un cliché comune a molti capitani d’industria otto- e novecenteschi.
Ma non comune nel caso degli editori: è vero che Louis Hachette, il più ricco editore dell’Ottocento, era figlio di una lavandaia, ma lei lavorava per il liceo Louis-le-Grand, grande di nome e di fatto, cosa che permise al figlio di frequentarlo. E da questa solida base di avviarsi alla gloria editoriale.
I nostri invece sono entrambi incolti. Mondadori ha la quinta elementare e molti anni dopo se ne lamenterà di frequente, civettando, con il suo banchiere e amico Raffaele Mattioli. Il quale un bel giorno, di fronte all’ennesima replica, gli dice: «Ma senta, caro Mondadori, secondo me lei ha studiato troppo. Guardi Rizzoli, che ha solo la seconda, e veda un po’ la strada che ha fatto.» (Per la verità in altre occasioni Rizzoli rivendicherà di avere anche lui la quinta, presa però alle serali.)
Entrambi, e questo è decisivo, all’origine tipografi, adepti dell’arte nera, con nel naso l’odore acre degli inchiostri. Arnoldo comincia da garzone nel retrobottega di una cartoleria di Ostiglia, nel mantovano, dove troneggia un torchio a mano in disuso, tra casse di caratteri impolverati e, più tardi, una macchina a manovella. Si stampano carte intestate, biglietti da visita, partecipazioni, moduli, registri, manifesti. Angelo, appena uscito dai Martinitt dove gli hanno insegnato il mestiere, compera in società con un altro operaio una pedalina usata. A rate e firmando un bel numero di cambiali, naturalmente.
Rischiano anche di spaccarla quando cade dal carretto su cui la spingono dalla Stazione Centrale alla stanza in via Cerva che è la loro prima sede. Smanovellando e pedalando entrambi, Mondadori e Rizzoli, prendono buona nota del fatto che tra il prezzo cui si può vendere la carta stampata e il costo della carta e della stampa c’è una bella differenza, ossia un possibile e notevole guadagno.
A questo punto si trovano però di fronte a un bivio. Da una parte si può stampare su commissione, fare integralmente i tipografi, e il problema sarà allora quello di trovare un numero di clienti e di commesse sufficienti a saturare le macchine. Oppure, dall’altra parte, si può stampare quel che si vuole, di propria iniziativa, e il problema allora sarà quello di trovare un numero di acquirenti sufficiente per i propri stampati. (Entra così in scena il pubblico, misteriosa divinità!) In questo secondo caso tutto dipende da quel che c’è stampato su quella carta, cioè da chi l’ha scritto e da che cosa ha scritto. L’arte di tenere insieme gli autori, le loro opere e il pubblico si chiama editoria.
Qui le strade dei due gemelli si dividono, per circa un quarto di secolo. Rizzoli prende la prima, quella dello stampatore, Mondadori la seconda, quella dell’editore. Poi si riaccosteranno, ma l’originaria diversità di orientamento darà origine a due diversi tipi di editoria. C’è un’ultima grande somiglianza se non identità tra i gemelli fondatori: per entrambi tutte le tappe decisive della loro sfolgorante crescita – che poi vorrà dire prestigio, ricchezza, potere e fama – sono segnate dall’arrivo di nuovi macchinari, dall’allestimento di nuovi impianti, dall’apertura di nuovi stabilimenti. Fino a tutti gli anni Sessanta il loro affanno e il loro orgoglio si concentrano sulle officine, sul loro essere integralmente industriali, uomini delle macchine.
Da bambino e da ragazzino non ho la più pallida idea di che cosa siano Rizzoli e Mondadori. La famosa coppia a me non dice niente. Come del resto – ne sono convinto – alla maggior parte degli italiani di quel tempo. Non sono marche, come per dire le marche delle automobili, quelle sì ben visibili e ben chiare. Sono solo nomi misteriosi che compaiono con allarmante frequenza sotto certi riquadri pubblicitari prima su Oggi e poi anche su Epoca, domestiche e familiari riviste che nessuno connette a Rizzoli o a Mondadori.
Nei riquadri si intravedono copertine di libri (quelli so che cosa sono), ma piccole, non si capisce bene che figure ci siano sopra. In compenso c’è sempre una lunga pappardella che io non leggo, un po’ perché dice cose incomprensibili, un po’ perché quando riesco ad acchiappare di nascosto una rivista (i miei genitori non hanno piacere che io le prenda in mano) guardo le fotografie, che sono molto più interessanti, e, se c’è tempo, leggo le didascalie. Le pappardelle le lascio lì.
Storia confidenziale dell‘editoria italiana, Gian Arturo Ferrari, Marsilio, 368 pagine, 19 euro
Gian Arturo Ferrari e la gran lotta di classe dell’editoria italiana