Chissà quanti soldi ha dato Marsilio a Gian Arturo Ferrari per Storia confidenziale dell’editoria italiana. È impossibile non pensarci, arrivati alla pagina in cui Ferrari riferisce la regola di Andrew Wylie (agente d’un po’ tutti, da Martin Amis a Baricco): «Gli editori si impegneranno davvero sui libri di qualità solo se li hanno pagati, e pagati cari».
Vi vedo, che pensate: ma Marsilio è il tuo editore, Soncini, chiedi e ti sarà detto (detto, non dato). Ripensateci: forse qualche editore è così indiscreto da svelare gli anticipi, ma non certo ad altri autori che, incapienti, frigneranno perché si percepiscono leggendari quanto Ferrari e quindi meritevoli dei suoi stessi emolumenti e allora ditelo che fate figli e figliastri.
Tutta la letteratura è pettegolezzo, diceva un certo Truman Capote; ma non tutto il pettegolezzo è letteratura, ridondante precisazione che Capote non aggiungeva ma io sì. Che un libro di memorie di Gian Arturo Ferrari – che ha attraversato mezzo secolo di editoria italiana e attorno al quale il settore ha costruito una leggenda finora privata – avesse il potenziale d’essere molto pettegolo era ovvio.
Ma basta aver fatto la storia dell’editoria per saper scrivere? Basta avere buone storie per far letteratura? Certo che no, sennò definiremmo letteratura ogni Harmony, e i critici culturali si taglierebbero le vene con gli angoli dei Meridiani, disperati per l’oltraggio alla definizione. Che cos’è la letteratura, oltre che pettegolezzo? Uno sguardo, un dettaglio, un’entomologia in bella forma?
Potrei mentire, cavillare, dire «insomma, Ferrari è uno che scrive “dal canto suo”, orsù» – ma sarebbe tutta invidia. Invidia dell’anticipo, sì. Invidia della leggenda, certo. Ma soprattutto invidia di quel rigo di purissima letteratura, quando Ferrari arriva a casa di Carlo De Benedetti dove crede di dover solo parlare; e invece ci trovano, lui e Marco Polillo, due contratti (come direttore editoriale e direttore generale della Mondadori) pronti da firmare, e la mattina dopo scopriranno che era già pronto anche l’articolo di Repubblica che riferisce di questo calciomercato editoriale. Quel rigo in cui Ferrari scrive: «De Benedetti ci accoglie nella sua casa milanese, arredamento di Mongiardino, che gli hanno evidentemente spiegato essere quello confacente al suo status».
Diceva Mike Nichols che, quando preparava la regia di uno spettacolo teatrale dei Monty Python, aveva sprecato molto tempo a chiedersi quale fosse il tema della pièce. Finché non aveva avuto un’illuminazione: gli inglesi scrivono solo di classe sociale. Ferrari pure, e mica solo quando deve porgerci una polaroid delle ambizioni middlebrow di De Benedetti.
Quando dice dell’editore americano che alla serata del Nobel ha un frac su misura, «per l’invidia di noi miserabili, che ce ne stiamo infagottati nelle nostre marsine a noleggio» (è Oliver Twist, ma riscritto da Capote). O quando racconta dello Strega scippato a Calasso.
La storia è nota, almeno ai pettegoli interessati al settore. Adelphi concorre eccezionalmente, con Le nozze di Cadmo e Armonia (libro di formazione di noialtre liceali con pretese intellettuali e sociali degli anni Ottanta; noialtre liceali che poi diverremo quella definizione ferrariana lì: «L’intellighenzia che in Calasso vede una delle sue più riverite divinità»).
Mondadori ha in cinquina Pontiggia. Che poi vincerà, in questo Scene di lotta di classe al Ninfeo, ma sembra talmente destinato a perdere che due mesi prima della premiazione, a Torino, a una cena della Mondadori per Pontiggia, Carlo Caracciolo – il nuovo presidente della Mondadori, che il romanzo editoriale di Ferrari ci ha già introdotto con le parole di Caracciolo stesso: «È un bel pezzo che voi un editore non ce l’avete, non siete più abituati» – invita Calasso e se lo mette a sedere vicino.
La scena di esausta lotta di classe, che Ferrari ci pitta in poche righe, è questa: «“Non facciamo cose parrocchiali per piacere” ha detto Caracciolo – gran signore e illustre membro dell’intellighenzia – ammonendo noi piccolo borghesi. Calasso, non va dimenticato, è molto vicino a sua sorella Marella, moglie dell’avvocato Agnelli. A queste altezze i piccolo borghesi boccheggiano».
Tutti quelli che di mestiere fanno interviste, in quest’epoca timorosa in cui nessuno vuol dire niente di significativo perché poi sennò qualcuno di certo s’offende, raccomandano d’intervistare solo gli ultraottantenni: gente che ha visto tutto, fatto tutto, che non ha paura di niente e dice tutto quel che le va. Ferrari ha settantotto anni, ma è evidentemente un enfant prodige del dire un po’ tutto, compresa un’interessante disamina delle classi in cui Berlusconi divide le persone che lavorano.
In cima i fondatori, che si sono inventati un’impresa. Poi gli imprenditori, che non l’hanno inventata ma ci rischiano i loro capitali. Gli specialisti, quelli che sanno fare qualcosa, che sia limare le unghie o tirare calci a un pallone: «Per mia fortuna, sapendo fare i libri, in questa categoria ci rientro anch’io». Per ultimi i manager, esecutori ma pericolosi, «senza rischiare e senza saper fare, coltivano smodate ambizioni di potere».
Essendo Ferrari non all’ultimo posto della catena alimentare, Berlusconi lo rispetta e solo una volta gli chiede di ritirare un libro. Non si può, gli spiega sornione Ferrari, i librai sono legalmente proprietari delle copie acquistate (come sa bene Feltrinelli, che vanamente ritirò il libro di Roberto Speranza, che continuò a circolare impreziosito dalla non ufficialità). Berlusconi ne vieta allora la ristampa, e Ferrari conclude: «Lo ristampiamo due, tre volte senza scriverci sopra “seconda edizione”, “terza edizione”». Per fortuna non erano anni in cui gli autori annunciavano trionfali le ristampe sui loro social.
Dice Ferrari che lui i libri li ricorda tutti. Dice anche che quell’editore americano col frac su misura «pensa che il mestiere consista essenzialmente nel leggere». E quindi sì, un po’ mi struggo per l’anticipo, ma soprattutto mi struggo per il ritardo, per essermi persa il Novecento editoriale, quel secolo – di cui non resta traccia – in cui il pettegolezzo si faceva spesso letteratura; in cui non eravamo costretti a scansare le scocciature dei moralisti fingendo che le classi sociali non esistessero; e in cui, che bizzarria, gli editori leggevano i libri che pubblicavano.