Giorgio Griffa, classe 1936, è un personaggio anomalo del mondo dell’arte italiana: per tutta la vita ha svolto la libera professione di avvocato a Torino e contemporaneamente si è affermato grazie alla sua ricerca pittorica, fino a diventare uno degli artisti italiani più celebrati in tutto il mondo. Griffa è noto per le sue grandi opere su tela in cui il segno si fonde con il colore. L’artista non solo dipinge sulla tela “libera”, senza telaio, ma concepisce la pittura come scelta razionale di liberazione.
La pittura, per Griffa, è infatti il punto di incontro tra ragione e libertà, uno strumento di laica estasi, che ha fatto e fa da contraltare a un’ordinata vita privata da libero professionista. Capiamo perciò il perché la sua pittura sia puro gesto: qualsiasi finalità esterna “all’arte per l’arte” sarebbe uno svilimento e un tradimento dello stesso gesto artistico. Tale impostazione poetica è dichiarata esplicitamente dall’artista sin dall’inizio della sua carriera artistica: nel 1972 già diceva «io non rappresento nulla, io dipingo».
Chi muove il pennello è perciò l’inconscio dell’artista, non la sua razionalità, tant’è che lo stesso Griffa, nel 1975, spiegava il suo lavoro dicendo che «consiste soltanto nell’appoggiare il colore dentro la tela». Ne consegue che per il pittore torinese non devono esistere sulla tela né limiti né confini. I contorni sono considerati inutili costrutti mentali, forme di mediazione e depauperamento delle potenzialità umane. Per tale ragione il segno e il colore nella pittura di Griffa sono sinonimi, o meglio dimensioni che si fondono in modo indissolubile.
A differenza dell’astrattismo americano, il caos non trova posto nelle sue opere. Le tele sono pervase da un forte ritmo musicale, quasi un lessico visivo dell’inconscio: rette, curve, colori trovano un’inedita sintesi e armonia. Il risultato sono dipinti che richiamano le bandiere al vento, bandiere di un paese universale, libero e senza confini. La parte irrazionale, che giunge in Griffa come necessaria conseguenza alla razionalità della genesi creativa, palesa sulla tela la perfezione che è insita in noi: grazie all’arte, la mano e la mente riescono a ricongiungersi «per incantamento», come ricorda l’esponente della ricerca pittorica contemporanea.
Questa perturbante magia di dantesca memoria fa sì che l’esperienza di liberazione nella pittura sia così potente da rivelarsi contagiosa, così da arrivare immediatamente allo spettatore. Le opere di Griffa risultano infatti empatiche e inclusive, sebbene siano estremamente concettuali, se non anche filologiche (evidente anche la meta-riflessione sulla pittura e l’arte contemporanea). Forse complice l’essenzialità, il colore liquido, sbavato e quasi infantile, il grande formato, di cui Griffa è maestro, o la sinuosità della tela libera, è impossibile resistervi. Di fronte a queste opere lo sguardo percorre avanti e indietro il ritmo del segno colorato, perdendosi e arrivando a un’altra dimensione «per altra via | per altri porti». (Inferno, Canto III, Dante Alighieri).