Non vuol passare per sprovveduto il Giuseppe Conte che alla recente presentazione pubblica del nuovo libro del suo tutore Goffredo Bettini (quello del forte punto di riferimento dei progressisti) si lascia andare a un elogio persino dotto della prosa bettiniana, sottolineando il «labor limae oraziano» che la contraddistingue e addirittura da segnalare per una capacità «aforistica», qualunque cosa significhi. Vuoi mettere che il professore ha anche un po’ di cultura da esibire?
Illusione breve, perché subito dopo, nella foga dell’elogio, fa uno scivolone rivelatore, confondendo il consumismo con il consumerismo, criticando quest’ultimo in modo del tutto incongruo.
E i motivi diventano subito chiari. L’apprendista progressista ha letto qualche bignami su cosa significa essere di sinistra, e ha trovato questa parola che era di moda nel goscismo negli anni ’70, quando appunto il consumerismo era un modo per organizzare e razionalizzare l’ebrezza consumistica montata nel decennio precedente. Un modo, insomma, per prevenire la “Milano da bere” che si sarebbe comunque affermata.
Con il flop delle prime organizzazioni dei consumatori, il termine è poi andato un po’ fuori moda, assorbito dalla funzione sociale delle imprese. La crisi economica ciclica ha infine ridimensionato il senso iniziale del consumismo. Ma evidentemente, Conte ha trovato il vocabolo nell’attrezzatura del gioco del piccolo progressista, o nel manuale delle giovani marmotte della sinistra, e l’ha subito adottato.
È ormai la sua attività principale. Anche lì, alla presentazione del libro, mentre Andrea Orlando predicava prudentemente la riforma del capitalismo, lui, Giuseppi, non aveva remore: giù invettive sul turbo capitalismo e sul vetero capitalismo, termini oggettivamente un po’ retro, che Fausto Bertinotti non userebbe oggi, ma a Conte piacciono, convinto che facciano fino. Importante esibirli di fronte a quelli del Partito democratico, che «si sono fatti ipnotizzare» da Mario Draghi dopo aver partecipato a quella meraviglia che è stato il Conte II.
La cosa politicamente triste è naturalmente che quelli del Pd si facciano impressionare. Anche Orlando, poverino, ha dovuto ammettere che il suo partito, che ha rappresentato per anni al ministero del Lavoro, è stato supino di fronte al capitalismo. Forse per il solito peccato originale renziano del Jobs Act da ripudiare. Insomma, un Orlando pronto a chinarsi di fronte a Carlo Bonomi, e per fortuna che i Cinquestelle hanno fatto cadere il Governo.
Con tutto ciò, Giuseppe Conte è certamente un uomo fortunato. Invece di finire nell’oblio totale a cui sembrava (meritatamente) destinato, è oggi centrale in tutti i giochi politici. Aver perso sei milioni di voti è una medaglia. Merito del PD, naturalmente, che gli porge la guancia tutti i giorni per il fatidico schiaffone. Lui ci ha anche preso gusto. L’ultimo sgarbo è strepitoso: no inceneritore (così lo chiama lui, che non ha mai visto un termovalorizzatore) no party.
No, dunque, al centrosinistra alla guida della Regione Lazio. Passerà al centrodestra e niente assessorati per Roberta Lombardi, che ci teneva tanto. Ma vuoi mettere la soddisfazione? I vertici dem lo elogiavano a parole ma lo trattavano come un parente povero, un utile idiota con il quale sommare i voti.
Ora è lui in testa, ha appena sorpassato i malcapitati nei sondaggi. E aspetta non in un mitico meet up, ma nel suo ufficio di Campo Marzio, pagato dai contribuenti, seduto tra i consulenti Paola Taverna e Vito Crimi, che vengano a cercarlo con il cappello in mano.
Il suo rapporto con Enrico Letta è un po’ come quello di Zelensky con Putin: mandatelo via e poi ci potremo incontrare, fa capire sdegnoso, non pago del fatto che il segretario dem stia purgando il grave errore di averlo respinto alle elezioni, dopo averlo incensato per due anni.
Tipico tempismo Pd, irremovibile (c’è un pericolo per la democrazia!) ben quattro volte sulla riduzione del numero dei parlamentari e poi anti casta alla quinta. Ma il problema è che Giuseppe Conte non si ritiene fortunato. Lui pensa di essere uno stratega politico. Lo si vede dal suo nuovo look: gira per strada in favore di telecamere con le mani in tasca, fa il piacione più di prima, accetta pacche sulla giacca di sartoria dai passanti, qualche occhietto malizioso dalle signore.
E, poi, davanti ai microfoni, giù luoghi comuni progressisti. Gli è stato spiegato che per essere di sinistra basta usare alcune leve magiche: ambientalismo un tanto al chilo, pacifismo con slogan dei tempi del Vietnam, partecipazione ad adunate in piazza San Giovanni, un po’ di bella ciao.
Tutto quello che manca da anni a quelli della vera sinistra, che hanno dovuto digerire il riformismo e ora sono convinti di aver perso per eccesso di riforme, non per arroccamento di una classe dirigente contenta di aver perso tutta insieme, così nessuno può impartire lezioni. Ma va a finire che le lezioni le impartisce lui, l’ex vice dei suoi vice, l’ex duro dei porti da chiudere, l’ex sostenitore del fatto che destra e sinistra pari sono.
L’uomo del “tutto gratis”, viziato dal blocco del Patto di Stabilità, dai miliardi di Francoforte e Bruxelles. Con Bettini benedicente, lunga vita al progressista di noantri.