Eccola dunque Elly Schlein, come avevamo scritto ieri, scendere in campo con il suo linguaggio di grande apertura verso l’esterno (è un classico), spendersi per una «nuova casa», lanciarsi in «una sfida collettiva» con «tante e tanti» in nome di una «rifondazione».
Non è un annuncio formale («aderisco al processo costituente») ma tutti hanno capito che si candida alla successione di Enrico Letta. Occupy Congresso, insomma, nuova puntata di un lungo percorso ai fianchi del Partito democratico (Occupy Pd, Sardine eccetera) nella speranza che la sua immagine alzi un vento nuovo soprattutto sul piano dei valori e del modo di comunicare.
Perché di linea politica Elly non ha parlato: si vedrà. A conferma del fatto un po’ increscioso che quello che dovrebbe essere il cuore di un congresso – la definizione di una linea politica – continua a essere l’oggetto misterioso nel presente di un partito che non sa o non vuole fissare una posizione precisa.
Rischia di essere questo il paradosso di un congresso nel quale si passerà dal dibattito filosofico-valoriale alle tecniche per portare la gente ai gazebo per questo o quel candidato, con in mezzo la vaghezza politica su quali siano le cose da proporre gli italiani e con chi le si vorrebbe farle.
A rendere più acuto questo paradosso c’è un’urgenza di ridefinire la linea politica come forse mai si era vista prima: tutto si muove in fretta e a furia di discettare sui massimi sistemi, o giochicchiare con le tattiche, la destra più destra è andata al governo e malgrado i suoi strafalcioni in campo interno e internazionale l’opposizione ancora non ha preso le misure della nuova situazione.
Che dirà Elly Schlein sul Terzo Polo, cosa sul Movimento 5 Stelle di Giuseppe Conte? Non basterà infatti dire che questa «è una sfida plurale e collettiva o non realizzerà il cambiamento»: plurale, con chi? Nell’assenza di risposte – ma non solo da parte di Schlein – ci si ripara dietro al discorso, peraltro giusto, del «capire chi siamo», con il rischio assurdo però di separare il quesito esistenziale dal contesto generale e dunque di fare una conta su chi parla meglio o chi è più telegenico.
A occhio e croce, la strada di Schlein sbarra quella della sinistra interna, ultimamente venata da un certo antiamericanismo di gioventù, e sarà per lei vitale affrancarsi dai movimenti dei vecchi marpioni del partito che già la sponsorizzano per bloccare Stefano Bonaccini, il quale che a questo punto non potrà più stare a guardare: e forse con la sua candidatura si avrà qualche elemento di merito in più. Perché la politica batte ogni giorno alla porta. Da questo punto di vista la novità dell’appoggio del Partito democratico del Lazio ad Alessio D’Amato è importante. Non era scontato, anzi.
I capibastone del Partito democratico del Lazio, compreso Nicola Zingaretti – quello che aveva lasciato la segreteria disgustato dalle correnti – avrebbero preferito uno degli uomini forti del partito ma la mossa pro-D’Amato di Carlo Calenda li ha obiettivamente fregati.
Ovviamente adesso tutti questi cercheranno spazio all’ombra del candidato Pd-Terzo Polo. È sempre così. Però resta il fatto che una scelta politica il partito finalmente l’ha fatta, superando l’astio per il leader di Azione: ha capito che non c’era altra strada.
Poteva farlo anche in Lombardia (come ha sostenuto anche Michele Salvati, uno dei teorici della nascita del Pd) però lì ormai è andata. Quello che è certo è che è finita l’era della «alleanza strategica» con il capo del populismo grillino, che si muove come un’anguilla nel lago stagnante della politica, quella “Conte-mania” che aveva preso gli animi dei dirigenti del triennio ‘18-‘21, quello dell’incubazione della batosta del 25 settembre.
C’è dunque qualche avvisaglia che il Partito democratico si risvegli dalla lunga notte con Conte, che si apra una nuova interlocuzione con i riformisti che da parte loro, senza trucchi né aggressioni, dovranno assecondare questo processo. Se ci sarà.