Meno una fettaTutto quello che ho imparato sul panettone

È ufficialmente iniziata la stagione in cui la domanda sorge spontanea: qual è il miglior lievitato natalizio da portare a tavola durante le Feste? Tra alveolature e pirlature, il racconto di una storia d’amore ventennale di chi ha imparato come sceglierlo

Foto Unsplash

Quando ho iniziato a occuparmi di panettoni era un tempo in cui le classifiche dei migliori panettoni non esistevano: parliamo di un’era geologica fa. Il panettone delle Tre Marie era il massimo possibile e nessuno si sarebbe mai sognato di fare questioni sull’alveolatura. Da allora a oggi ho scritto innumerevoli volte la storia dell’origine di questo dolce, l’ho visto cambiare forma, altezza, colore, sapore. L’ho visto modificare la sua struttura, ho imparato tutto sulla tripla lievitazione. Ho frequentato una quantità imbarazzante di pasticcerie e ho chiacchierato per ore con chi produce farina, burro, canditi, con chi impasta a mano, con la tuffante, con la rugiada e con il lievito madre di cent’anni.

So tutto del panettone che sfiocca, del burro che si incorpora alla farina, dell’equilibrio della ricetta, della pirlatura, dei monodigliceridi (prometto articolo a parte, solo per questo: c’è tutto un mondo da scoprire). Del tempo di riposo, della lievitazione e della maturazione. Ma soprattutto ho assaggiato in questi ultimi dieci anni tonnellate di fette. Perché ogni anno, per fare questa benedetta classifica, che io mi ostino a chiamare selezione perché non ho ambizioni di sapere chi è meglio degli altri, ma ho imparato nel tempo che cosa potrebbe piacervi di più, nel panorama dei lievitati natalizi, ogni anno, dicevo, assaggio almeno 40 diversi panettoni.

La mia cucina si trasforma nel mese di novembre in un deposito di panettoni senza una fetta: l’unica che mangio dell’intero dolce, per evitare il diabete e altre malattie cardiocircolatorie. I panettoni meno una fetta sono un ambìto premio per le famiglie del palazzo, per le mie nipotine, per i miei genitori, che accettano di buon grado di finire il tutto. Tengo per me solo un paio di lievitati: quelli che ho amato di più e che finisco con bramosia nelle mattine successive all’uscita della selezione.

Momento nel quale succede la cosa che mi fa soffrire di più: messaggi accorati di chi non è compreso nell’elenco, messaggi di appassionati e sostenitori di pasticceri e alveolature che si dividono in: quelli soddisfatti perché ho inserito il loro preferito, quelli arrabbiati perché il loro beniamino non c’è. Ovviamente sono bravissima per i primi, incompetente per i secondi.

Quello che posso garantire è che questa personalissima e necessariamente parziale selezione è frutto di una accurata e determinatissima scelta fatta di assaggi, di ricerca, di studio, di competenza. Inizio a luglio a parlare con chi queste delizie le fa, e nei mesi successivi è tutto un confronto su ingredienti e  processi, laboratori e orari, incastri e pirottini.

La cosa più bella di questo dialogo mai finito con i professionisti di questo settore è che imparo ogni anno qualcosa di più, e che posso così migliorare la mia sensibilità sull’argomento. E, visto che ci siamo, ecco qui qualche piccola regola base che nel tempo ho messo insieme per scegliere con criterio: non posso assaggiare tutti i panettoni che usciranno da tutte le pasticcerie italiane, ma posso aiutarvi a capire se quello che state per mangiare è buono e vale la pena metterlo sulla tavola di Natale.

Il panettone milanese, che poi è “il” panettone per antonomasia, è quello basso, con uvetta e canditi, con impasto bianco (non giallo!) e senza alcuna glassatura. Non vogliamo fare i puristi a tutti i costi, ma questo è quanto: gli altri sono interpretazioni della tradizione.

Occhio alla scadenza: se dura più di quaranta giorni da quando lo comprate, è fatto con un conservante, si chiama E472 e va indicato in etichetta. È un problema? No! Ma quelli preparati con i famosi digliceridi è in grado di durare più a lungo, quindi di solito è preparato prima. Questo significa solo che la produzione di quel brand è medio grande, e che quindi ha la necessità di fare più sfornate, e di mantenere la qualità più a lungo.

Ma i monodigliceridi ci uccideranno? No. Sono sostanze emulsionanti che aiutano a tenere insieme acqua e grassi e quindi a mantenere morbido l’impasto, che se no seccherebbe. Sono grassi di origine vegetale (derivano dall’olio di colza) che impediscono che l’acqua evapori e secchi il panettone, ma anche che ammuffisca. La quantità utilizzabile nell’impasto è prevista per legge e non esiste evidenza scientifica che creino problemi per la salute.

Perché nel tempo sono stati demonizzati? Perché i pasticceri artigianali, quelli che fanno qualche centinaio di panettoni, volevano sottolineare la loro differenza con i medi laboratori, che producono migliaia di pezzi. Se cercate l’artigianalità, monodigliceridi o no, potreste trovarla in entrambi i prodotti.

Ma passiamo alla degustazione.

Iniziamo guardandolo: se aderisce bene al pirottino, se ha una forma regolare, se non ha bruciature superficiali, è già qualcosa. Se aprendolo scopriamo una fetta con una pasta regolare, con “buchetti” omogenei e uvetta e canditi ben distribuiti siamo a buon punto. Se troviamo una pasta molto gialla, probabilmente il panettone sarà molto saporito, più bagnato e più pesante. Ne mangeremo una fetta sola, probabilmente. Ma di sicuro ci darà grande soddisfazione al palato. Se vediamo buchi ampi, quindi un’alveolatura sviluppata come dicono quelli bravi, saremo davanti a un panettone di un pastry chef con manie di grandezza, che spinge verso l’alto le sue creazioni e ha ambizioni di vincere concorsi. È panettone? Diciamo un lievitato contemporaneo, che avrà – di solito – una consistenza più leggera e un sapore aromatico più marcato.

È più compatto e dall’alveolatura piccola, mediamente giallo e morbido? È un mix delle due scuole di pensiero, e mette insieme, o almeno ci prova, le due differenti caratteristiche.

Ma veniamo alla produzione.

Un quarto del peso del panettone è farina, il resto è altro: burro, uova, zucchero, uvetta e canditi fanno la parte del leone nell’impasto. Per questo il prezzo non è paragonabile a quello del pane. Sempre che il panettone venduto come artigianale non venga impastato con dei mix, i preparati con enzimi e glutine secco che non devono essere dichiarati in etichetta ma sono di fatto dei semilavorati pronti, a cui basta aggiungere acqua.

Attenzione all’etichetta anche per l’utilizzo della margarina: se è presente, la qualità finale del dolce ma anche il profumo dell’impasto ne risentiranno.

Il panettone, come tutti i lievitati, è un impasto vivo che evolve dopo la cottura: il momento migliore per mangiarlo è dopo una settimana, dieci giorni dalla sua cottura. Da quel momento in poi decadono la morbidezza e l’umidità dell’impasto.

Mangiarlo al suo meglio è la vera sfida: se scegliamo quello a breve conservazione dobbiamo andarlo a recuperare quando manca davvero poco al nostro assaggio. Meglio quindi prenotare il nostro preferito per goderselo al suo meglio.

I panettoni più buoni per me non è detto siano i panettoni più buoni per voi: per questo, da anni, stilo una selezione e non faccio classifiche.

Che cosa cerchiamo quando degustiamo un panettone? Il piacere, e il desiderio di mangiarne un’altra fetta. Se è stucchevole o troppo pesante, probabilmente ci rimarrà sullo stomaco. Se mangiandolo ci crea acidità, probabilmente è stato usato un “aroma panettone” per dargli profumo di Natale. Se è un po’ secchino, probabilmente la quantità di grassi non è sufficiente. Se vi lascia una patina in bocca, il problema di base è un burro non perfetto, o un equilibrio non raggiunto.

Il capitolo canditi è una discriminante: se non vi piacciono, spesso è perché non avete mangiato quelli buoni davvero. Assaggiatene uno senza impasto e vi renderete subito conto se sono fatti ad arte o sono industriali e preparati con frutta e canditura non adeguata.

E prima di mangiarlo, mi raccomando, scaldatelo un pochino, così che i grassi si amalghino meglio e il profumo esca prepotente. Non troppo, per non farlo seccare. Meglio sul calorifero per una decina di minuti che in forno per qualche minuto. No microonde, che rischia di renderlo gommoso. No padella, che lo renderebbe caramellato (ma alla seconda fetta, questa opzione non è affatto da scartare!).

Adesso che sapete tutto, andate e scegliete. Non fermatevi alla prima fetta, non abbiate paura di sperimentare. E soprattutto: godeteveli, che alle menate gourmet ci pensiamo già fin troppo noi.

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