Chiamami col tuo nomeL’anomalia revisionista di Orbán: gli invasori sono invasori, oggi come ieri

La dimenticanza ipocrita del primo ministro ungherese che si “scorda” di menzionare i russi mentre commemora le vittime della Rivoluzione del 1956, soffocata dai sovietici con i carri armati

Bandiera ungherese a mezz'asta
Twitter/Viktor Orbán

Una bandiera a mezz’asta contro il cielo plumbeo di Budapest. Il 4 novembre in Italia non è più festa. O, meglio, «vacanza» non lo è più, o non lo è ancora, visto che la ricorrenza – la vittoria della Prima guerra mondiale – affine all’universo simbolico della destra-destra insediatasi a Palazzo Chigi. Il presidente del Senato vorrebbe celebrare pure la nascita del Regno d’Italia, si sospetta con più «virile trasporto» del 25 aprile. Ignazio La Russa esci da questa newsletter.

Torniamo all’Ungheria. Lì il 4 novembre ricorda la Rivoluzione del 1956, spenta dai russi con i carri armati. Sì, il Cremlino non ha cambiato la sua dottrina sulla Politica estera, chiamiamola così, in quella che considera la sua «sfera d’influenza». Un pezzo di Occidente, come a fine febbraio con l’Ucraina, rifiutò di chiamare una spedizione punitiva con il suo nome. La stampa di sinistra preferì falsificare la realtà.

Una guerra fredda dopo, con un conflitto caldo nel cuore dell’Europa, il primo ministro Viktor Orbán ha twittato per commemorare una delle giornate più importanti nella storia del suo Paese. C’è un’anomalia in quel messaggio di «lutto nazionale», però. È laconico oltre i limiti della sciatteria quando scrive: «Loro hanno schiacciato la nostra rivoluzione nel 1956, ma il nostro amore per la libertà e la sovranità vive ancora oggi».


In inglese, they. Ma loro sarebbero i sovietici. Sa di revisionismo non menzionare i responsabili di una tragedia proprio quando si vorrebbe raccogliere l’esempio delle vittime di quelle atrocità. È ancora più grave farlo oggi, mentre gli eredi di quell’imperialismo bombardano obiettivi civili in Ucraina e il loro capobanda, Vladimir Putin, non si è rassegnato alla scomparsa dell’Unione sovietica di cui vorrebbe disseppellire fantasmi e confini.

Se consideriamo i veti di Orbán negli ultimi mesi, quando i suoi ricatti hanno rallentato a più riprese le sanzioni europee, lo shopping sfrenato di prodotti energetici russi, il rifiuto di inviare armi, le affinità elettive con il totalitarismo putiniano, quelle righe di un tweet pesano ancora di più. Sono l’ostinata, connivente, adesione a una retorica che confonde aggrediti e aggressori, vittime e carnefici, non perché non li conosca, ma perché l’imparzialità sbandierata fa interessi di parte. Quella sbagliata della Storia, in questo caso.

Quando rifiuta di chiamare gli invasori, quelli del 1956 e del 2022, con il loro nome, Orbán si scorda di aver speso lo stesso paragone – senza tacerlo nell’ipocrisia di un soggetto generico – con le istituzioni europee, poche settimane prima. Non è all’altezza di Imre Nagy, il suo predecessore ammazzato per aver creduto negli stessi ideali di democrazia e autodeterminazione che oggi difende Volodymir Zelensky.

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