Timori italianiIl nuovo regolamento europeo sugli imballaggi è necessario ma migliorabile

Non è ancora stato proposto ufficialmente, ma il governo italiano si è già espresso contro la bozza. Da una parte, Bruxelles punta a ridurre i rifiuti in circolazione promuovendo il riuso. Dall’altra, Roma vuole tutelare un sistema funzionante e un business florido: quello del riciclo

LaPresse

Non è ancora stato presentato, ma ha già provocato una rivolta. Il nuovo regolamento europeo sugli imballaggi e il loro smaltimento verrà proposto dalla Commissione con ogni probabilità il 30 novembre. E se le disposizioni resteranno quelle della bozza visionata da Linkiesta, provocheranno una forte opposizione nel mondo industriale italiano, che ha già manifestato la sua contrarietà.

Troppi rifiuti in Europa
Il regolamento parte da una problematica molto rilevante a livello europeo, ossia l’enorme quantità di materie prime utilizzate per produrre pacchetti e confezioni dei beni che acquistiamo: circa il quaranta per cento di tutta la plastica e il cinquanta per cento di tutta la carta consumate nell’Unione europea. Il cosiddetto packaging ha prodotto 78,5 milioni di tonnellate di rifiuti nel 2019, il diciannove per cento in più della quantità registrata dieci anni prima.

L’obiettivo della Commissione è ambizioso e sostenuto anche dal Parlamento comunitario: assicurare che entro il 2030 tutti gli imballaggi siano «riutilizzabili» o «riciclabili in maniera economicamente sostenibile». Proprio qui sta il nodo principale della questione, perché la «gerarchia europea dei rifiuti», sancita da una direttiva del 2008, assegna un chiaro ordine di priorità alle misure che regolano produzione e gestione dei materiali di scarto. 

Al primo posto c’è la prevenzione, che infatti la Commissione considera nella sua proposta di regolamento: negli Stati europei la quantità di imballaggi utilizzati deve calare del cinque per cento entro il 2030 e del dieci per cento entro il 2035 rispetto ai livelli del 2018. Poi ci sarebbe il riutilizzo dei materiali gettati, seguito dal riciclaggio, dal recupero tramite produzione di energia e, infine, dallo smaltimento. In ossequio alla gerarchia della piramide dei rifiuti, la Commissione vuole quindi incrementare il numero di imballaggi rimessi in circolo senza bisogno di essere lavorati.

Per farlo, imporrebbe a tutti i ventisette Stati membri di allestire sistemi di «vuoto a rendere»  (Deposit return system, Drs), già molto diffusi in alcuni Paesi del Nord Europa. Tramite questo meccanismo, all’acquisto di un prodotto il consumatore paga una cifra supplementare per il suo contenitore, ad esempio un bicchiere o una bottiglia. Somma che gli viene poi restituita quando consegna il contenitore vuoto. In particolare, l’articolo 61 del regolamento chiede un sistema Drs per tutte le bottiglie di plastica e i contenitori di liquidi in metallo fino a tre litri. L’articolo 62 ne incoraggia l’adozione anche per gli altri oggetti, che non sono coperti da una disposizione obbligatoria. 

Una rivoluzione copernicana per quegli Stati, come l’Italia, che hanno un’ottima filiera di riciclo (a oggi il 73,3 per cento degli imballaggi immessi sul mercato), ma una scarsa propensione al riuso. Per questo il fronte italiano si è mostrato compatto: governo e associazioni di settore hanno espresso forte contrarietà alla normativa, che avrebbe «un impatto devastante sulle imprese italiane», per usare le parole del presidente di Confindustria Carlo Bonomi. Secondo i dati della confederazione industriale, il settore conta più di settecentomila aziende e oltre sei milioni di posti di lavoro, per un fatturato complessivo di 1.850 miliardi di euro. 

Un regolamento necessario ma migliorabile
«Per alcuni materiali ha senso costruire un circuito di riutilizzo, per altri meno», dice a Linkiesta Luca Ruini, presidente del Consorzio nazionale imballaggi (Conai). Quest’ultimo raccoglie circa la metà dei materiali buttati in tutti i Comuni d’Italia e li avvia al riciclo. Un sistema ben collaudato grazie anche a un modello di raccolta differenziata funzionante e alla storica carenza di materie prime che ha spinto il nostro Paese a fare di necessità virtù.

«La gerarchia dei rifiuti è di per sé corretta, ma questo non vuol dire che vada applicata sempre. Un conto è incentivare il riuso, un altro è affermare che si tratta dell’unico modo fattibile di procedere», spiega Ruini, sottolineando le differenze tra i Paesi nordeuropei e quelli come Italia e Spagna, che hanno sistemi efficienti di riciclo e che a suo giudizio devono essere in qualche modo salvaguardati. «Come accaduto in passato, va lasciata agli Stati membri la possibilità di poter scegliere il modello più adeguato al proprio contesto nazionale», aggiunge. 

Ruini non è contrario a prescindere dal vuoto a rendere, ma lo vorrebbe volontario. «Si tratta di sistemi che possono essere utilizzati soltanto per determinate tipologie di prodotti e di circuiti: ad esempio vanno bene dentro bar ristoranti e hotel, dove oggi le bottiglie d’acqua vengono già riutilizzate, pur senza cauzione». Conai contesta infatti l’obbligatorietà del Drs, bollandola come «una duplicazione inutile di costi economici ed ambientali», visto che andrebbe ad affiancare le raccolte differenziate tradizionali senza sostituirle in toto

Il Consorzio calcola un investimento iniziale di circa 2,3 miliardi di euro, e un costo di gestione di circa trecentocinquanta milioni di euro all’anno per installare centomila macchine di ritiro dei contenitori usati. Una cifra compresa tra cinquecento milioni e un miliardo di euro servirebbe invece a foraggiare un sistema informatico che renda possibile ottenere la cauzione in tutta Italia. 

A preoccupare il mondo industriale sono comunque anche i costi che le aziende dovrebbero sostenere per adattare i propri prodotti al riutilizzo, ma pure il calo di business nel settore provocato dalla diminuzione di materiale pronto per il riciclo, come ammesso dal presidente Ruini.

Ma per Tiziana Beghin, capodelegazione al Parlamento europeo del Movimento Cinque Stelle, i modelli di «vuoto a rendere» e riciclo possono e devono coesistere. «Su questo tema il muro contro muro con Bruxelles non porta da nessuna parte», dice a Linkiesta l’eurodeputata, che plaude all’iniziativa nata per contrastare l’aumento dei rifiuti da imballaggio, ma rimarca il lavoro da fare in Parlamento perché il testo «non penalizzi nessuno».

«La gerarchia dei rifiuti prevede che prima del riciclo si debba fare di tutto per riutilizzare i materiali e i prodotti esistenti», dice Beghin, che difende il rispetto dei principi dell’economia circolare e anche la scelta della Commissione di stringere le maglie. «Lo strumento del regolamento serve a obbligare tutti gli Stati membri a recepire determinati obiettivi vincolanti. Davanti all’emergenza climatica dobbiamo impegnarci tutti, senza scorciatoie o deroghe che si possano nascondere nelle pieghe del recepimento delle direttive». 

Proprio una deroga, un’eccezione o un rinvio della normativa sarà l’obiettivo del governo italiano. «L’Italia non può accettare il regolamento e dirà di no», ha subito sentenziato il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica, Gilberto Pichetto Fratin. Secondo l’ex viceministro dello Sviluppo economico, «l’Italia è stata la prima Nazione a mettere fuori legge gli shopper di plastica. L’Europa allora ci criticò, poi ha fatto come noi. Oggi sull’economia circolare possiamo dirci i primi della classe. Per questo diremo no a un regolamento sugli imballaggi, che non condividiamo. Siamo pronti a discutere sulle modalità». 

«Condividiamo totalmente questa posizione del governo italiano. ⁦Timmermans (vice presidente della Commissione europea, ndr)⁩ sta accelerando su normative assurde e totalmente controproducenti per l’ambiente. Sembra avere a cuore la distruzione dell’industria europea piuttosto che la transizione ecologica», ha twittato Carlo Calenda, leader di Azione. 

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