Scrittori e popoloAlberto Asor Rosa credeva nella letteratura come educazione

È morto a 89 anni, è stato un saggista di primissimo livello, un intellettuale di fortissime convinzioni e un uomo più di certezze che di dubbi

Unsplash

Alberto Asor Rosa, scomparso ieri a 89 anni, era un intellettuale di fortissime convinzioni. Tosto. Molto polemico, se necessario. Perché, sia nella veste di grande critico letterario che in quella dell’attivista politico benché sui generis, era animato dalla stessa passione incrollabile, uomo più di certezze che di dubbi. Detestava per esempio Pasolini.

Per venti e più anni non ci fu nulla da fare, l’autore di Ragazzi di vita era bocciato senz’appello: Pasolini! Non era una contestazione come poteva essere quella, che so, per un Cassola o scrittori considerati, a torto, minori (il suo più famoso saggio, Scrittori e popolo, è una macchina da guerra di bocciature), qui si trattava dell’intellettuale italiano più geniale del Novecento.

Quando nel 1985 andammo a chiedergli di partecipare ad un Festival della Fgci dedicato a Pasolini, a dieci anni dalla morte, Asor Rosa alzò il sopracciglio sbuffando come faceva lui, «ragazzi, siete fissati con Pasolini, ma era un reazionario!»: quel vagheggiamento di PPP di un’età dell’innocenza per un marxista altro non era che, appunto, reazione antilluministica e in un’ultima analisi borghesissimo travestimento di un’ideologia falsamente dalla parte del popolo (che sia stato un gran populista, Pasolini?).

Però venne al dibattito, Asor Rosa, che in fondo ci vedeva come suoi studenti particolari. Per polemizzare, ovviamente.

Il caso volle che il giorno prima fosse venuto a mancare Italo Calvino, da Asor molto amato, il che gli consentì di parlare più dell’autore del Barone rampante che di quello di Ragazzi di vita con gran sollievo nostro. E su Calvino Asor Rosa in quel dibattito disse cose molto importanti, poi riprese puntualmente e sistematicamente in vari scritti successivi, il cui nucleo fondamentale è leggere unitariamente tutta l’opera di Calvino come segnata da una forte impronta morale. Non che Pasolini, banalmente, fosse “immorale” (questa è una stolida critica casomai di destra), ma mentre questi si bloccava nella contemplazione, per quanto altissima, Calvino si poneva la questione della responsabilità della letteratura nel mondo.

Ritroviamo questi concetto in Genus Italicum (ora nel Meridiano Mondadori dedicato a Asor Rosa, p. 863 e segg) a proposito della «persuasione» di Calvino «che quella della scrittura sia fondamentalmente un’operazione morale» citando una sua frase del 1955: «Noi siamo tra quelli che credono in una letteratura che sia presenza attiva nella storia, in una letteratura come educazione, di grado e di qualità insostituibili»: nulla di più lontano dalla meta-storia di Pasolini.

Quando poi, passati dei mesi, gli chiedemmo se volesse partecipare a un dibattito su un altro grande scrittore italiano, Elio Vittorini, il professore arrivò persino a fare un accenno di sorriso: «Beh, lo considero un passo avanti rispetto a Pasolini». E fu come se avessimo preso un 18 a un suo esame.