Il Bon Wei è stato tra i primi locali non tradizionali in città ad avere un doppio merito, da una parte evidenziando quello che molti sanno e pochi sanno valorizzare: la cucina cinese è una cucina regionale e parlare di un unico tipo di cucina, quella più comunemente esportata in occidente che corrisponde grossomodo alla cantonese (spesso reinterpretata), se non sbagliato di sicuro è limitativo. Accanto a questo, il ristorante di via Castelvetro ha avuto fin dall’inizio la volontà di fare alta cucina.
E proprio quell’alta cucina regionale cinese che viene riportato nell’insegna è diventato un duplice manifesto da realizzare nel tempo. Poco dopo l’apertura, Bon Wei ha messo in cantiere un lavoro di ricerca durato due anni in collaborazione con la Fondazione Italia Cina, che, come primo risultato, ha portato a una serie di eventi tematici regionali e poi alla creazione di una vera e propria carta di piatti regionali.
Lo spirito è quello di farsi ambasciatori non di una ma di tante cucine regionali con lo scopo didattico, attraverso il gusto, di far conoscere e apprezzare i piatti e la loro provenienza geografica. Per una cucina forte come la nostra che al tempo stesso ha tante identità quante sono le regioni italiane, ognuna fortemente caratterizzata, il discorso dovrebbe suonare del tutto familiare oltre che interessante.
Lo chef Zhang Guoqing porta oggi in carta e sulla tavola di Bon Wei le otto regioni gastronomiche più rappresentative della vastità geografica e culinaria cinese, che nel loro complesso prendono il nome di badacaixi. Nella carta regionale di Bon Wei ogni regione viene raccontata con una breve introduzione, dalla cucina tre sono le proposte che ne riassumono lo stile gastronomico, con un’offerta complessiva di ventiquattro piatti regionali.
Cotture lente per la cucina di montagna Anhui, o l’antica e leggera Fujian, la Guangdong che corrisponde alla nota cucina cantonese che ha subito la mescolanza di culture e di traffici commerciali di luoghi di snodo come Canton e Hong Kong. Passando per la cucina imperiale Shandong che tra i piatti annovera i lamian (tagliolini) tirati a mano. Ancora la Sichuan con sapori netti che anche in Occidente abbiamo imparato almeno in parte a conoscere grazie al pepe di questa regione. Fino alla regione costiera Zhejiang dove domina la materia prima ittica.
Zhang Le, figlio dello chef e alla guida del ristorante, ha fatto da anfitrione alla serata di festeggiamenti del compleanno del locale, e, al di là della ricorrenza, alcuni dei piatti serviti costituiranno scelte fuori carta fino a Natale. Un consiglio? Il succoso Manzo d’Autunno: filetto di manzo servito con salsa all’ostrica su un nido di funghi cinesi Xing Bao Gu, delicatamente pastellati in fecola di patata e fritti.
Un compleanno è anche l’occasione per fare qualche bilancio assieme a Zhang Le sul cammino percorso, rispetto al livello raggiunto di conoscenza della cultura gastronomica cinese in Italia ad esempio: «Abbiamo sicuramente imparato qualcosa in più e posso ritenermi abbastanza soddisfatto di questa cosa. Grazie agli eventi organizzati negli anni e mirati a ognuna delle otto regioni della
gastronomia cinese più rinomata, a partire dallo Zhejiang che è la mia regione natale, abbiamo fatto conoscere al nostro pubblico cosa vuol dire una vera cucina cinese. Una cucina dove non esistono alcuni piatti come il riso alla cantonese, abbiamo insegnato soprattutto qualcosa della nostra cultura nelle collaborazioni con la Fondazione Italia-Cina. Ogni regione, come succede in Italia, ha sapori e cotture soprattutto molto differenti l’una dall’altra. Come la delicatezza dei dim sum del Canton ad esempio che è stata la prima regione arrivata in Italia e che ha oscurato un po’ tutte le altre. Noi abbiamo tirato fuori le caratteristiche di tutte le altre sette regioni».
E il pubblico milanese ha risposto bene a questa proposta in cui alla parte classica del menu, che oggi assume un aspetto sempre più contemporaneo, si affianca tutta la parte regionale: «Ci sono persone che hanno più curiosità e ci fanno domande per scoprire le varie tipologie di cucina,» dice Le Zhang «quelli più pigri facendo nuove scelte dal nostro menu riescono piano piano a differenziare, rispetto a quella che era la classica cucina cantonese degli anni ’80-’90 in Italia. La cucina del Canton, armoniosa e delicata, dalla quale provengono le scelte dei nostri antipasti, continua ad avere successo, ma anche la mia regione, sotto Shangai, un po’ più gustosa e saporita come carattere. E in generale la curiosità delle persone le tocca un po’ tutte senza lasciarne una troppo sottovalutata. Siamo poi anche noi che diamo dei consigli ai clienti descrivendo le caratteristiche di gusto delle varie regioni».
Di strada ce n’è sicuramente ancora da fare e gli scivoloni quando si parla di cucina cinese non mancano, Le Zhang li individua nella “non vera cucina cinese” e nell’eccessiva spinta fusion che rischia di snaturarla.
Il panorama dei ristoranti cinesi però negli ultimi dieci anni a Milano, ma non solo, è cambiato considerevolmente, probabilmente grazie a una nuova generazione di cuochi e ristoratori: «È cambiato molto anche perché molti hanno percorso la nostra strada degli ultimi anni, e tanti ristoranti si sono specializzati su una sola cucina specifica rispetto alla panoramica che facciamo noi delle diverse cucine regionali. Le nuove generazioni che hanno aperto ristoranti cinesi in Italia hanno studiato di più e viaggiato di più, hanno avuto più possibilità rispetto alla generazione dei miei genitori».
A proposito della regionalizzazione che hanno avuto alcune insegne milanesi «Gli esempi sono tanti come Maho Hunan nato negli ultimi anni e che fa prettamente una cucina dello Hunan, oppure ancora Le Nove Scodelle che si differenzia dagli altri perché mirato alla regione dello Sichuan. L’evoluzione del panorama passa attraverso una specializzazione di quella che è la vera cucina cinese».
Bon Wei sembra avere nel dna lo spirito regionale, e non solo nel dna: «In brigata abbiamo uno chef dello Sichuan, poi c’è papà che viene dallo Zhejiang e un altro chef è dello Hunan; quindi, una brigata rappresentativa già di per sé di diverse regioni e che può esprimerle. Facciamo fare le cose come si deve a chi le sa fare meglio. Per papà lo Zhejiang è il suo punto forte ma anche il Canton per la presenza di molti parenti e per aver viaggiato spesso fin da giovane».
La scoperta della vera cucina cinese passa anche attraverso il superamento di quello stereotipo che vede questa come una cucina sempre e solo low cost: «La mia clientela in particolare, piuttosto che uscire tutti i fine settimana, si fa fare una volta al mese una coccola da noi, perché ci ritiene una cucina cinese di alta fascia. Una cucina che ha una tradizione oltre che regionale anche millenaria, fatta di qualità, di tecniche e di materie prime». Meno ma meglio, un po’ come abbiamo iniziato a fare con la carne; siamo riusciti a impararlo anche con la pizza e il caffè, tutti alimenti per i quali siamo disposti a spendere di più per un prodotto migliore che si discosti dalla media.
È ormai vicino il giorno in cui sparirà dai menu il riso alla cantonese? Forse non serve che sparisca, la conoscenza del piatto può mantenerlo in carta ma nella sua veste corretta: «Come nome è un piatto che in Cina non esiste, esiste ma non con il prosciutto cotto, non utilizzato in Cina. Piuttosto viene utilizzata la pancetta marinata sotto soia con un misto di verdure e i piselli. Il riso alla cantonese come nome è stato creato negli anni ‘80 per adattare la cucina cinese».
E quando vede in giro spopolare uno dei tanti risi alla cantonese, come reagisce? Indulgente ma fedele alla vera cucina cinese, un po’ ride e un po’ soffre ci confessa.