Pubblicato originariamente su Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa
La Bosnia Erzegovina è uno dei Paesi maggiormente attraversati dalle rotte balcaniche della migrazione. Cosa è accaduto negli ultimi mesi? Lo spiega da Bihać Silvia Maraone, project manager di Ipsia che coordina gli interventi in alcuni campi di accoglienza e di transito per rifugiati nella regione.
Lavora sul campo dal 2015 e specificatamente in Bosnia. Dal 2021, dopo la pandemia, cosa è cambiato nei movimenti e come mai?
Nonostante la pandemia, anche nel 2021 si è assistito ad un aumento del flusso lungo la rotta balcanica e quindi anche in Bosnia Erzegovina dove c’è stato un aumento del ventuno per cento degli arrivi, e nel 2022 un aumento del trentacinque per cento rispetto all’anno precedente.
Ad esempio, dagli ultimi dati ufficiali di Unhcr in Bosnia Erzegovina che riguardano il mese di ottobre, è stato registrato l’arrivo di cinquemila persone, cioè il ventisette per cento in più rispetto a settembre, ma ben il 312 per cento in più rispetto a ottobre 2021 in cui erano stati poco più di mille.
Ciò che è accaduto nel 2022 è che in Bosnia nei primi mesi abbiamo assistito al naturale diminuire delle presenze nei campi e un generale svuotamento del Paese. L’andamento è cambiato radicalmente tra settembre e ottobre, con un picco degli arrivi a novembre.
Questo perché nei primi mesi una parte della rotta dalla Serbia, anziché puntare verso Ovest – quindi in Bosnia – ha puntato verso Nord, in particolare verso il confine ungherese, con l’apertura di tante sotto-rotte che hanno mostrato tentativi di raggiungere Paesi dell’Ue anche attraverso la Romania.
In seguito, l’andamento è cambiato in parte per l’intensificarsi dei respingimenti violenti della polizia ungherese, in parte per via di quello che è accaduto in Croazia. Cioè dal momento in cui lì il governo ha cominciato a consegnare ai migranti arrivati sul suo territorio il «foglio dei sette giorni», come lo chiamano – di fatto un foglio di espulsione (“Rješenje o povratku”, previsto dll’articolo 184 della nuova legge sugli stranieri, in vigore da gennaio 2022, nuovamente modificata di recente in vista dell’ingresso della Croazia in Schengen il 1 gennaio 2023, ndr) – che permette loro di transitare liberamente e avviarsi verso altri Paesi dell’Ue confinanti, come la Slovenia, ma con l’obbligo di uscire dalla Croazia entro 7 giorni.
Non è dato sapere il motivo del cambio di politica degli ultimi mesi in Croazia, che è nota essere stata il Paese in cui la polizia di frontiera per anni ha perpetrato costanti e violenti respingimenti, né quanto durerà questa “concessione” al transito. Vedremo da gennaio 2023, quando la Croazia sarà in Schengen e si ritroverà a controllare centinaia di chilometri di confini esterni dell’Unione europea.
Un’altra novità è la riapertura di due rotte, che in realtà erano già esistite ma erano percorsi molto più difficili e lunghi: cioè quella dalla città di Banja Luka (nella Republika Srpska, una delle due entità del paese, ndr) verso Nord, cioè la cittadina di Gradiška sulla riva del fiume Sava, e l’altra che da Bihać prosegue verso Livno, nella regione dell’Erzegovina.
Negli ultimi mesi gli arrivi a Trieste di persone che hanno percorso la rotta balcanica sono aumentati notevolmente. È una conseguenza del «foglio dei sette giorni»?
Il rilascio di quel foglio ha portato al calo dei respingimenti della polizia croata. Per cui in Bosnia si è assistito a un fenomeno nuovo: quest’anno sono aumentati gli ingressi rispetto agli anni precedenti, ma con una permanenza nei campi di accoglienza molto più breve, tra i sette e i dieci giorni, perché le persone proseguono subito il “game” attraverso il confine con la Croazia, soprattutto dal Cantone Una Sana in cui opero.
A questo si aggiunge il fatto che pure in Slovenia si è cominciato a lasciarle transitare, anche con l’uso dei mezzi di trasporto pubblici. Il nuovo governo, dando seguito alle promesse elettorali, ha cominciato a togliere il filo spinato dalle frontiere con la Croazia.
Di conseguenza sono aumentati gli arrivi a Trieste come in altri punti di sbocco della rotta balcanica. Ricordo che non tutti fanno la stessa rotta. Ormai è diversificata e dipende dalla disponibilità economica di chi è in cammino. Per cui chi ha i soldi prova il cosiddetto “taxi game”, ossia paga al trafficante tra i quattro e i seimila euro, attraversa a piedi solo le frontiere in mezzo ai boschi, mentre passata la frontiera viene caricato nei bauli delle auto o nei furgoni.
Chi invece ha pochi soldi, fa tutto il percorso a piedi. Tra di loro soprattutto gli afghani, che sono tornati quest’anno a essere in percentuale il gruppo più numeroso lungo la rotta. Tanti fuggiti dall’Afghanistan dopo agosto 2021, dopo il ritiro delle truppe internazionali e dopo mesi di viaggio fino alla Turchia e alla penisola balcanica. Pagano circa duecento euro per un attraversamento in gommone sul fiume, o circa 1500 per avere una guida che li accompagni lungo i sentieri.
Ad oggi, in Bosnia Erzegovina, qual è la situazione nei campi di accoglienza, ancora definiti «temporanei»?
I quattro centri di «accoglienza temporanea» rimasti, dai sette aperti all’inizio della “crisi” nel 2018, sono pieni a metà, per un totale – se guardiamo i dati Iom di novembre (Iom è l’acronimo di Organizzazione Internazionale delle Migrazioni) – di circa duemila persone accolte stabilmente nelle strutture. Non è una situazione di sovraffollamento e quindi sono migliorate le condizioni generali di vita. Ciò detto, è da segnalare che l’aumento nei mesi scorsi del ricambio delle persone – cioè che arrivano e restano solo pochi giorni e ripartono – crea difficoltà ad assicurare pasti completi a tutti, o distribuzione continua di beni di prima necessità come vestiti e scarpe, kit igienico-sanitari eccetera.
Sui Paesi di origine, accanto alle persone di nazionalità afghana, negli ultimi mesi si è visto l’arrivo di un significativo numero di cittadini del Burundi. Probabilmente grazie al fatto che la Serbia permetteva loro di arrivare a Belgrado senza visto (è recente la decisione del governo della Serbia, su pressioni europee, di introdurre il visto per cittadini del Burundi e della Tunisia, ndr), come per i cittadini di altri Paesi quali l’India e Cuba.
I cittadini di Afghanistan e Burundi risultano essere percentualmente più numerosi anche tra le quasi novecento persone che vivono fuori dai campi, in edifici abbandonati o nei jungle camp, come è emerso da un monitoraggio realizzato ad ottobre dall’Iom in collaborazione con l’Ufficio stranieri e la Croce Rossa della Bosnia.
Com’è evoluto il dibattito in Bosnia Erzegovina sul tema migrazione rispetto al 2015?
Il tema della migrazione non è più tanto sentito o dibattuto, più che altro perché il Paese ha altre urgenze calde da affrontare, dalla situazione socio-politica a quella economica, anche a causa dell’attenzione generale concentrata sulle elezioni che si sono tenute a inizio ottobre e le proteste che sono seguite in alcune parti dello Stato per denunciare presunti brogli elettorali.
Quindi la presenza dei migranti è stata resa meno visibile anche sui media, nel mainstream, se non in occasione di episodi particolari. Come nel caso avvenuto ad aprile a Bihać, in cui in una sparatoria tra gruppi di migranti è stato ucciso un ragazzo pakistano di ventitré anni.
In generale, al momento c’è un buon dialogo tra membri della società civile locale e internazionale e il governo bosniaco. Il governo, tramite l’Ufficio per gli stranieri, sta man mano prendendo sempre più responsabilità nella gestione diretta delle migrazioni al posto dell’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni (Iom), la quale ora svolge più un ruolo di formazione e sostegno sia alle organizzazioni locali che al governo.
Rimane il fatto che il Paese continua a non avere un vero sistema d’asilo, dove esistono pochissime forme di accoglienza alternativa ai campi – in appartamenti o strutture più piccole – e su iniziativa di singoli soggetti non istituzionali. Le pochissime persone che hanno ottenuto lo status di rifugiato o la protezione sussidiaria non godono di percorsi di integrazione sociale, mentre chi ha fatto richiesta di protezione attende ancora a lungo per la prima risposta, sebbene quest’anno i tempi di attesa siano diminuiti di molto rispetto all’anno scorso (dalla media di 444 giorni del 2021, ai 298 giorni di attesa nel 2022, ndr).
Si dovrà poi vedere se e quali cambiamenti prevede la nuova Strategia nazionale su migrazione e asilo 2021-2025, rimasta ferma per mesi e approvata dal Consiglio dei ministri della Bosnia Erzegovina solo a inizio dicembre, forse sull’onda della possibilità di ottenere lo status di paese candidato all’Ue (poi deciso dal Consiglio europeo nella seduta del 15 dicembre scorso, ndr).
L’Ipsia su cosa lavora attualmente e quali sono i bisogni principali?
All’interno dei centri di transito nella zona di Bihać, a Lipa ma da poco anche al Borići con l’apertura di un altro social caffè, proseguiamo con i nostri interventi di animazione psico-sociale.
Poi, da luglio di quest’anno siamo partiti con un nuovo progetto triennale, “Brat – Balkan Route Accoglienza in Transito”, assieme a Caritas Italiana e Croce Rossa Italiana, e che vede il coinvolgimento di partner locali come Emmaus Internazionale, Caritas BiH e Croce Rossa BiH, per operare in tre aree: Tuzla, Sarajevo e Bihać. Su questo, ad esempio lo scorso 10 novembre abbiamo già organizzato a Sarajevo la prima di tre conferenze previste da progetto, che ha rappresentato un momento importante per tutti i soggetti coinvolti di incontro, dialogo e approfondimento su tutte le attività programmate nei prossimi tre anni.
Si parla, in sintesi, di interventi di tipo psico-sociale, l’apertura di strutture tipo safe-house e daily center che permettano una modalità di accoglienza diversa e forse più coraggiosa, oltre all’accompagnamento della società civile e degli amministratori locali – con formazione e percorsi di capacity building – a una migliore gestione della migrazione e, infine, interventi di coesione sociale per favorire incontri della popolazione bosniaca con la popolazione migrante.