Bihać. Carlos si accende una sigaretta, lancia uno sguardo verso il campo profughi di Bihać e tira un sospiro. «Speriamo che Dio ce la mandi buona questa volta». Insieme a un ragazzo algerino, Max, aspetta che altri uomini e donne finiscano di prepararsi per tentare l’attraversamento del confine montuoso che separa la Bosnia-Erzegovina dalla Croazia.
«Mai nella mia vita mi sarei aspettato di finire così. A Cuba, dove lavoravo come medico ortopedico, mi davano del lei. Qui, invece, la mia vita non vale nulla. Se morissi domani, non seppellirebbero nemmeno il mio corpo», afferma amareggiato. Carlos è uno dei tanti cubani che per fuggire dal suo Paese è dovuto prima volare in Serbia, dove i cubani possono entrare senza visto e da lì ha iniziato il suo viaggio lungo la rotta balcanica per raggiungere la Spagna.
Da Belgrado è arrivato al confine tra Serbia e Bosnia e con l’aiuto di un trafficante è riuscito ad attraversare questa prima frontiera. «È stato difficile. Alcuni di noi erano esausti e non volevano proseguire il cammino ma il trafficante ci minacciava con una pistola. Alla fine, abbiamo attraversato un fiume e siamo riusciti ad arrivare fin qui».
Chi cerca di organizzare il proprio viaggio, spesso si affida ai consigli e ai messaggi postati in un gruppo Facebook chiamato «Cubani in Serbia». Qui c’è chi, senza remore, offre «pacchetti» per arrivare in Europa. Nel gruppo si legge: «Cubani che si trovano in Serbia e vogliono raggiungere la Bosnia o che si trovano in Bosnia e vogliono raggiungere la Croazia, la Slovenia, l’Italia, la Francia o la Spagna, mi possono scrivere al numero […] Potete scrivermi anche se volete raggiungere i campi che si trovano in Croazia o per attraversare».
Ma nel gruppo c’è anche chi diffida di queste offerte e mette in guardia da possibili truffe. Ci sono molte testimonianze di persone bloccate in Turchia, Grecia e Bosnia. In genere, chi offre questi servizi di trasferimento non chiede pagamento anticipato, ma solo dopo l’arrivo a destinazione.
Questa informazione ci viene confermata anche da Carlos, che riferisce di dover al suo «coyote» (colui che organizza il viaggio intero) 7.500 euro non appena metterà piede sul suolo spagnolo. Carlos continua: «Tuttavia, la parte più complicata arriva ora: attraversare il confine tra Bosnia e Croazia è diventato quasi impossibile».
L’uomo ci ha già provato tre volte, ma la polizia croata lo ha puntualmente fermato e rimandato indietro. Una di queste volte era con Max, che racconta di essere stato picchiato dalla polizia croata con i manganelli sulle gambe e sulle ginocchia. Secondo la Border Violence Monitoring Network, tra il 2021 e quest’anno almeno sedicimila persone sono state vittime di brutali respingimenti alle frontiere dell’Ue, e solo il cinque per cento di loro ha affermato di non aver subìto maltrattamenti o trattamenti inumani alla frontiera.
Più le porte dell’Europa si chiudono, più i migranti come Max e Carlos devono mettersi nelle mani di trafficanti e di quelle che loro chiamano «guide», esperti che tracciano il percorso e consigliano i modi più sicuri per oltrepassare la frontiera.
In particolare, è da Velika Kladuša, piccolo centro cittadino nel cantone di Una-Sana, che la maggior parte dei profughi attraversa il confine per la Croazia. Un confine, tra l’altro, dove sono ancora disseminate le mine antiuomo delle guerre jugoslave del 1991-1995.
In uno studio pubblicato nel 2019 da Balkan Insight, Velika Kladuša si configura come una tra le aree più pericolose di tutta la Bosnia a causa del rischio di esplosione delle mine. Ma chi non ha alternative per arrivare in Europa è disposto a correre anche tale rischio, sempre ammesso che se ne sia al corrente.
All’ora del crepuscolo, il gruppo che Max e Carlos stavano aspettando finalmente esce dal campo profughi. In tutto sono sedici persone tra uomini e donne, tutti di nazionalità cubana. Sono sorridenti e speranzosi. «Tenemos fe», dice una ragazza. Sono le 17.00 e, zaini in spalla, si incamminano verso la stazione degli autobus di Bihać. Tenteranno il «game», come lo chiamano i migranti, nelle prime ore del giorno successivo.
Secondo l’ultimo rapporto dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (Oim), i cubani rappresentano la seconda nazionalità più numerosa di rifugiati nei campi della Bosnia-Erzegovina, dopo gli afghani. Fuggono perché, come dice una di loro, «a Cuba non abbiamo alcuna possibilità di costruirci un futuro migliore».
Negli ultimi anni il Paese sta di fatto vivendo una crisi economica che ha conseguenze gravissime sulla vita delle persone che ogni giorno devono fare i conti con la mancanza di scorte mediche e di cibo, di carburante ed altri generi di prima necessità. Anche l’inflazione ha sfiorato picchi mai visti prima: nel 2021 ha raggiunto la quota del 77 per cento e le stime di crescita per i prossimi anni hanno indici bassissimi. Altri cubani, invece, vogliono ricongiungersi ai loro parenti che si trovano già in Spagna. Come Carlos, che ha un figlio di dodici anni e una moglie che lo aspettano a Tenerife.
Non potendo entrare legalmente nel Paese sono costretti, come tanti altri migranti provenienti dalle zone più disparate del mondo, a dover percorre la rotta balcanica, che secondo i dati pubblicati dall’Agenzia europea per la guardia di frontiera e costiera, Frontex, si conferma come la rotta più attiva verso l’Unione Europea. Da gennaio a ottobre di quest’anno, nei Balcani occidentali sono stati registrati più di 128 mila arrivi, con un aumento del 159 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.
Al mattino presto, la stazione degli autobus di Bihać appare come un luogo carico di speranza: la speranza perduta di chi torna dopo un tentativo fallito e la speranza ritrovata di chi si sta per avventurarsi di nuovo per attraversare il confine. Lunedì, tra coloro che non ce l’hanno fatta, c’erano anche le donne e gli uomini cubani che erano partiti la sera prima.
Li incontriamo sporchi di fango e con i vestiti bagnati fino alla vita. Una ragazza dai lunghi capelli lisci era in stato di shock. Aveva gli occhi gonfi dal pianto e non smetteva di tremare. «Era buio e sono caduta in un fiume. Ero bagnata dalla testa ai piedi e mi hanno dovuto cambiare tutti i vestiti nella foresta, altrimenti mi sarei congelata. Poi la polizia ci ha trovato e io sono svenuta. Da quel momento non ricordo più nulla».
La notte del suo tentativo a Velika Kladuša ha nevicato e le temperature sono scese sei gradi sotto lo zero. Un’altra ragazza continua il racconto. «Abbiamo cercato di attraversare il confine due volte, ma la polizia croata ci ha trovato e respinto indietro in entrambe le occasioni». Dopo il primo tentativo, sono tornati nella foresta e hanno aspettato per un’ora nella neve coperti sotto dei sacchi a pelo.
Poi hanno riprovato per un altro sentiero, ma anche in questo caso, ai piedi della montagna, hanno trovato la polizia di frontiera croata ad aspettarli. «Ci proviamo sempre due volte. Ma se si viene presi la prima volta è inutile riprovarci, perché l’intero confine è già stato allarmato di che ci sono migranti che cercano di passare», continua la donna.
Max suggerisce che forse sono state le telecamere termiche posizionate lungo i punti di attraversamento a tradirli. Questo è del tutto possibile, dato che negli ultimi anni l’Europa ha investito milioni di euro in sistemi di sorveglianza come droni, telecamere termiche e radar per monitorare i movimenti sospetti alle frontiere.
Prima di salutarli, ho chiesto loro se avessero intenzione di provare a riattraversare il confine: «Certo, cosa dovremmo fare qui? Tutto ciò che vogliamo è ricongiungerci con le nostre famiglie in Spagna e iniziare una nuova vita» risponde una ragazza.