Filiera cortaServe formare le professionalità giuste per la nuova corsa allo spazio, dice il ceo di Apogeo Space

L’accordo tra due aziende lombarde per la prima costellazione italiana per l’IoT. Per essere più sostenibili, i nanosatelliti montano piccole vele in modo da bruciarsi nell’atmosfera, una volta scaduti, invece di diventare rifiuti orbitali

L'Italia vista dallo spazio
Foto: © ASI

«L’esplorazione dello spazio è solo l’aspetto più romantico». Quello che fa sognare ai bimbi di ogni generazione di fare gli astronauti, ma è una delle sue sfaccettature. «C’è un grande sforzo sulle telecomunicazioni e sulla ricerca scientifica in generale», dice a Linkiesta Guido Parissenti, cofondatore e ceo di Apogeo Space, pmi bresciana che ha da poco annunciato un accordo con D-Orbit per mettere in orbita la prima costellazione italiana di nanosattelliti per una connessione globale nell’Internet of Things (IoT). «Grande sforzo» significa anche capitali e quindi «è previsto un vasto ritorno di investimenti per l’economia» del nostro Paese.

La partnership per l’azienda si traduce in «un accesso sicuro allo spazio». Per la metà del 2023 sono previsti i primi lanci, ciascuno da nove satelliti, «nano» anche nelle dimensioni: dieci centimetri per dieci. «Lo spazio è pericoloso, un ambiente ostile – continua il ceo –. Non siamo un’università che può permettersi ritardi. Se dobbiamo fornire un servizio sul quale si fonda il nostro modello di business, dobbiamo essere in orbita a una determinata data, altrimenti rischiamo di perdere del fatturato». Come vettore, anzi come «taxi spaziale», D-Orbit è una garanzia.

La rete, che sarà completata entro il 2030, sarà subito attiva. Sarà «abilitante nei confronti di altre aziende che hanno la possibilità di estendere le loro capacità per l’IoT industriale». Per esempio, sistemi di monitoraggio per l’agricoltura, tracking di beni navali o in mezzo agli oceani. Si espande lo spettro, rispetto alle infrastrutture terrestri, che hanno oggettivi limiti di portata, siano il WiFi o la rete telefonica. Prima, si rinuncianciava a investire nelle aree non coperte.

«Ora potranno aprirsi a mercati nuovi o facilitare, dal punto di vista della logistica, quelli esistenti – spiega Parissenti –. Finora si affidavano magari al cellulare, ma tra Paesi diversi c’era il problema di continuare a cambiare Sim, o di trovarne che andassero bene per tutti». Operando con i satelliti, questi ostacoli scompaiono.

La partner D-Orbit ha sede principale nel Comasco e filiali negli Usa e nel Regno Unito. È una corsa allo spazio a chilometro zero, o made in Lombardia. La vicinanza geografica facilita le interazioni, sia per i test sia per abbattere il tempo necessario al problem solving. Così, la consegna dei nanosatelliti potrebbe avvenire (virtualmente) in macchina. Dimostra uno dei punti di forza della filiera spaziale tricolore: è in grado di coprire tutti i passaggi all’interno di un solo Stato.

«Non serviamo noi a dimostrarlo, ma l’Italia come sistema Paese sta investendo molto». All’ultima assemblea ministeriale dell’Agenzia spaziale europea (Esa), Roma è risultata la terza finanziatrice, con 3,1 miliardi di euro, ma il distacco dalle prime due si è ridotto significativamente. «Siamo ottimisti – commenta il cofondatore di Apogeo Space –, crediamo nelle potenzialità della struttura che stiamo sviluppando e nel ruolo che può avere l’IoT. Sta già succedendo».

Un’altra ditta italiana, di Imola, sta costruendo una vela per far rientrare nell’atmosfera i nanosatelliti alla fine della loro vita, di due o tre anni. Quando diventeranno obsoleti, o dovranno essere sostituiti, si attiverà e li trascinerà giù, «invece di lasciarli in orbita incontrollati, dove possono rappresentare un rischio». Perché brucino fino a consumarsi del tutto, ci vogliono centinaia di giorni, altrimenti servirebbero anni, ma la «capacità di liberare l’orbita» è uno dei punti di forza del progetto.

Ma questa nuova corsa allo spazio trova le professionalità che le occorrono? «Ci sono dei problemi non tanto dal punto di vista dell’offerta formativa – conclude Parissenti –, ma della comprensione di quali figure possano essere interessanti per un’azienda del settore. Oltre agli ingegneri aerospaziali, servono anche molte altre specializzazioni, tra le quali critica è la figura degli ingegneri elettronici. Il recente focus sullo spazio può farli apparire meno di moda, ma sono fondamentali per chi vuole fare upstream e sempre più difficili da trovare. Il livello della formazione è adeguato, ma ancora mancano figure ugualmente importanti: lo spazio è un ambiente ostile che richiede un approccio multidisciplinare. Nel grande e nel piccolo, senza uno sforzo collettivo, un’azienda aerospaziale non va da nessuna parte».

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