Questa settimana il commissario europeo per l’allargamento Oliver Varhelyi è in visita nei Balcani. L’area è fisicamente circondata da tempo da Stati Membri dell’Unione Europea, ma vede i suoi Paesi ancora fermi in diversi punti del percorso verso l’adesione vera e propria. In vista di un progressivo e auspicato avvicinamento, lunedì e martedì Varhely è stato in Bosnia-Erzegovina, mentre oggi e domani sarà in Serbia.
La Bosnia, in questo momento, è l’osservata speciale. A sei anni e mezzo dalla domanda di ingresso nell’Ue, a ottobre la Commissione Europea ha proposto che la richiesta si traducesse nell’assegnazione dello status di Paese candidato. Ora la palla passa al Consiglio Europeo, l’organo in cui sono rappresentati i ventisette Stati Membri, che dovrà approvare la candidatura all’unanimità.
Sembra che tale esito possa essere raggiunto già questo mese, sempre che vengano rispettate le otto condizioni poste per promuovere la democrazia nel Paese: un percorso difficile anche a causa della sua struttura istituzionale, come raccontavamo qui. La Commissione, ha dichiarato Varhelyi, «vuole vedere risultati chiari che possa riportare al Consiglio Europeo che si riunirà a dicembre».
I criteri ricalcano i quattordici punti su cui intervenire individuati già nel 2019, e includono la lotta a corruzione e crimine organizzato, riforme giudiziarie, garanzie di libertà di espressione e interventi sul sistema di asilo per i migranti. Per quanto riguarda l’ultimo punto, Varhelyi ha assistito alla sigla del memorandum of understanding tra il Paese e l’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim) sui rimpatri volontari e forzati: «Ancora una volta, i Balcani occidentali stanno assistendo a un aumento della pressione migratoria illegale, causando diverse sfide alla sicurezza, alla stabilità e alla prosperità della regione», ha detto il commissario. «Dobbiamo stopparla. Dobbiamo agire insieme. Dobbiamo agire in maniera coordinata».
Bisogna smantellare le reti del traffico di esseri umani, ha affermato, aggiungendo che occorre «rinforzare la protezione dei confini […] nel suo senso più forte. Dev’essere chiaro che l’Ue accoglie persone solo attraverso rotte sicure e legali. La porta non è aperta per l’ingresso illegale. Chi non è qualificato per restare, dovrà essere rimpatriato senza ritardo». Prima di proseguire, è necessario fare un’osservazione. Come si vedrà, le modalità di ingresso illegale nei confini europei sono una caratteristica dell’area balcanica, e ai sensi del diritto internazionale esse non giustificano il respingimento in nessun caso. In primis bisogna garantire la richiesta di asilo; solo successivamente, in caso di diniego, è possibile il rimpatrio.
Tornando a Varhely, il commissario ha annunciato un aumento del sessanta per cento dei fondi europei per i Balcani destinati agli obiettivi sopra descritti, fino a un totale di 350 milioni di euro nel 2024. Negli ultimi due anni l’Unione aveva finanziato, nel territorio, progetti per 170 milioni. Le componenti del supporto, ha spiegato, sono quattro: trenta milioni per la lotta al traffico e al crimine organizzato; quaranta per il rafforzamento della protezione dei confini con strumenti quali «droni, telecamere termiche, sistemi di videosorveglianza, veicoli di monitoraggio e reti di comunicazione»; cinquecentomila euro per un nuovo progetto pilota per incrementare la capacità di rimpatrio da parte dello Stato e dell’Oim; altri cinquecentomila euro per un altro progetto pilota riguardante il campo di Lipa, «che significa che i finti richiedenti asilo dovranno essere detenuti finché non saranno rimpatriati nei Paesi d’origine». Tutti i progetti saranno replicati in altre nazioni della regione.
Per comprendere il significato reale di queste parole, occorre partire da un ragionamento generale. L’intera regione dei Balcani occidentali, che comprende Macedonia del Nord, Albania, Montenegro, Kosovo, Serbia e Bosnia-Erzegovina, è uno dei più importanti snodi migratori dell’intero continente: qui arrivano persone da Pakistan, Afghanistan, Iran, Iraq, Siria, ma anche dall’Africa, in fuga da persecuzioni razziali, religiose, politiche o da situazioni di guerra e fame. Passano dall’imbuto della Turchia, finanziata dall’Unione Europea per bloccarne il passaggio, e se riescono a superarla si ritrovano in Grecia.
A causa delle condizioni critiche del sistema di accoglienza greco, che obbliga le persone ad attendere per anni che la propria richiesta di asilo venga processata, sono molti quelli che decidono di uscire dal territorio dell’Unione per affrontare l’inferno balcanico. Sì, perché l’intera area è di fatto un buco nero dei diritti umani, in cui ci si ritrova a vivere in campi formali dal precario stato igienico-sanitario, fisicamente e socialmente isolati, oppure in accampamenti in case abbandonate o nei boschi, al freddo, col rischio di subire abusi da parte della popolazione locale e dalle autorità statali.
E qui arriviamo al tema centrale: gli Stati, sia nei Balcani sia nel territorio europeo confinante (e non), queste persone non le vogliono. I respingimenti – ricordiamo, illegali in ogni caso – sono la norma, e sono spesso sostenuti dall’Unione stessa, sia dentro che fuori dai propri confini. Se si sommano i movimenti di persone – registrati dall’Onu – nei tre Stati più coinvolti nel passaggio verso l’Unione, Serbia, Bosnia e, in misura minore, Montenegro, si contano in totale 107mila attraversamenti dall’inizio dell’anno a ottobre. L’agenzia europea di frontiera Frontex, monitorando gli ingressi irregolari in territorio Ue, ha registrato oltre 128mila arrivi dai Balcani occidentali, un aumento del 159% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno.
Se si confrontano i dati Onu sul numero di persone transitate dalla regione, però, si scopre che queste sono solo ventiseimila. A fronte degli aumenti dei movimenti nelle varie nazioni, in cui si toccano punte del 99 per cento, questo dato è solamente del quattordici per cento superiore all’anno precedente. Da ciò può essere facilmente dedotto che sono aumentati considerevolmente i tentativi di attraversamento e, di conseguenza, i respingimenti illegali.
Per quanto riguarda la Bosnia-Erzegovina, a gestire il fenomeno migratorio nel Paese è esclusivamente l’entità della Federazione omonima, (l’altra è la Repubblica Srpska, a maggioranza serba). Qui si trovano tutti i campi formali, tra cui quello di Lipa, nel cantone di Una Sana. Il campo, dato alle fiamme nel 2020 dopo il ritiro dell’Oim, ha sempre avuto pessima fama in termini di condizioni di vita. Situato nei boschi, a chilometri di distanza da Bihac, la città più vicina, è spesso stato definito come un campo di concentramento.
I numeri a Una Sana, però, in questo periodo sono molto bassi. A raccontarlo è Alma Ćatić, volontaria dell’associazione Rahma nella località di Velika Kladuša: «Da quando il campo Mira ha chiuso, a maggio, fino forse a due mesi fa, abbiamo avuto intorno alle due-trecento persone» dice a Linkiesta. «Ma ora sono ancora meno, specialmente nelle ultime tre settimane, in cui tutte sono state portate al campo di Bihac». Qui la situazione è simile, anche se nei due campi ci sono comunque «centinaia di persone».
Diverso è il caso di Sarajevo: «Chi ci vive racconta che lì ci sono più rifugiati che mai. I campi sono pieni, e arrivano ancora nuove persone» spiega Ćatić. «Un altro posto dove la situazione è cambiata è Tuzla, vicino al confine con la Serbia. Chi arriva lì resta per una notte, o per poche ore, e poi si sposta verso il cantone di Una Sana o verso Sarajevo». I campi sono la destinazione dei migranti portati al loro interno dalle autorità bosniache dopo essere stati respinti dalla Croazia, in un ciclo di tentativi rischiosi potenzialmente senza fine.
La polizia croata è una delle più dure di tutta la rotta balcanica. Lo scorso anno il progetto olandese di giornalismo collaborativo Lighthouse Report ha pubblicato testimonianze video sulle violenze perpetrate contro i migranti, raffiguranti individui incappucciati armati di manganello picchiare ripetutamente le persone alla frontiera. Si trattava del ramo antisommossa della polizia croata, finanziata dal Fondo di sicurezza interna dell’Unione Europea.
La stessa Frontex, nella sua relazione sugli attraversamenti illegali, dichiara di aver risposto alla pressione migratoria eccezionale con più di cinquecento agenti nella regione. Come raccontato da Linkiesta, a ottobre il Parlamento Europeo ha rifiutato di approvare il bilancio 2020 dell’agenzia, coinvolta direttamente e indirettamente nelle violazioni dei diritti umani alle frontiere europee e nel depistaggio di istituzioni come il proprio ufficio di controllo e la Commissione Europea.
Testimonianze della presenza di Frontex ai confini balcanici ci erano state fornite ad aprile anche da una volontaria inglese nel nord della Serbia, territorio in cui avvengono sistematicamente respingimenti da Romania, Bosnia-Erzegovina e, soprattutto, Ungheria. Quest’ultima sta alzando l’altezza della sua barriera di filo spinato lungo tutto il confine con la Serbia «in modo che l’Europa non debba ricostituire i controlli alle frontiere interne», ed è stato registrato anche un aumento del livello di violenza da parte della polizia ungherese verso chi prova ad attraversarlo. Motivo per cui, forse, ci si può aspettare una deviazione del flusso nuovamente verso la Bosnia-Erzegovina.
Sempre stando ai dati Onu, i movimenti di persone in Serbia quest’anno sono stati oltre 84mila, un aumento del 97 per cento rispetto allo stesso periodo del 2021. Questo anche per via della liberalizzazione sui visti per chi arriva da Siria, Tunisia, Turchia, Cuba, Burundi e altri Paesi (annullata il 20 ottobre per tunisini e burundesi) che ne consente il transito e il conseguente tentativo di ingresso nell’Unione.
Serbia, Ungheria e Austria hanno recentemente firmato un memorandum d’intesa sulla questione migratoria, impegnandosi a prendere una serie di misure tra cui l’invio di oltre cento uomini, con veicoli dotati di telecamere a visione notturna e droni, al confine con la Macedonia del Nord. «Il sistema di asilo dell’Unione Europea ha fallito» ha dichiarato in quell’occasione il Cancelliere austriaco, Karl Nehammer.
L’annunciato sostegno europeo all’area balcanica per il controllo delle frontiere e il contrasto all’immigrazione illegale si inserisce, perciò, in questo contesto. L’Unione è direttamente coinvolta nella gestione del fenomeno in tutta l’area, dal sostegno finanziario e materiale alle forze di polizia alla realizzazione e al mantenimento dei campi formali. Un allargamento ai Paesi balcanici dovrebbe teoricamente avvenire nel rispetto di determinate condizioni, inclusa la tutela dei diritti umani.
«Ho letto con sgomento le dichiarazioni del Commissario Vàhrelyi, che sembrano dettate da un trionfante furore securitario», dichiara l’eurodeputato e capodelegazione Pd Brando Benifei. «Non una parola spesa sul necessario miglioramento delle procedure di riconoscimento delle richieste di asilo, o sulle condizioni in cui si trovano i profughi, soprattutto i più vulnerabili come donne, bambini e anziani». A Lipa, ricorda, «ci siamo stati, insieme ai colleghi Bartolo, Majorino e Moretti, e c’è da vergognarsi. Sarebbe più opportuno che la Commissione si allineasse nei suoi atti e nelle sue dichiarazioni al diritto internazionale umanitario invece che alla retorica di Orban sull’immigrazione».
Considerato quanto avviene dentro, in corrispondenza e fuori dai confini europei – con il supporto dell’Unione stessa – non ci si può sentire pienamente convinti di un effettivo miglioramento delle condizioni delle persone in transito. Anche in caso di una futura adesione.
«Non ho mai avuto molta fiducia in tutto ciò» dice Ćatić. «Forse stanno davvero pianificando di cambiare qualcosa, ma per me vogliono solo tenere le persone nei campi per giustificarne l’esistenza, in modo da poter sprecare più soldi in un presunto aiuto ai rifugiati».