Una mostra costruita intorno a trentuno disegni di piccolo formato e sette sculture di cui cinque da tavolo. Una mostra “minore” di un artista conosciuto al livello mondiale per la sua integrazione tra discipline differenti. Stiamo parlando di “Jan Fabre. La saggezza del Belgio” appena inaugurata a Milano presso la Galleria Gaburro.
Fabre (Anversa 1958) ha prodotto grandi installazioni, ad esempio nella cattedrale della sua città o sulla scalinata del Palazzo reale di Bruxelles, ma ha pure partecipato sette volte alla Biennale di Venezia, tre a Documenta Kassel, ha esposto al Louvre, al Kunsthistorisches Museum di Vienna, all’Ermitage, alla Fondation Maeght e nel 2019 al Museo di Capodimonte a Napoli.
Fabre è noto per essere capace di trattare discipline solo apparentemente collaterali come ad esempio la scrittura, il teatro, la danza, o il cinema; per sua stessa definizione è un «consilience artist» con una particolare attrazione per il corpo umano, il sesso e gli insetti. E un’«aggravante»: essere fiammingo.
Tutta l’opera di Fabre è pervasa da un’attenzione estrema per ciò che è organico: animale o vegetale che sia, nella sua dimensione tanto fisica che mentale.
Ai muri della galleria piccole targhe di ottone sono apposte sul velluto rosso che avvolge i suoi deliziosi quanto stranianti disegni. Su questo ottone Fabre si definisce ironicamente «Le Bon Artiste Belge». È un rimando alla frase pubblicitaria della cioccolata «Côte d’or, Le Bon Chocolat Belge» un simbolo alimentare identitario sovranazionale del Belgio che esprime non solo la dolcezza ma anche il «lato oscuro» di questo prodotto frutto del colonialismo belga in Congo, tema su cui l’artista lavora da anni.
In Fabre il disegno è un mezzo espressivo assoluto che sviluppa con varie tecniche. Per questa serie si tratta di matite colorate, ma Fabre è pure conosciuto per le sue biro e, a volte, fa uso addirittura del sangue, un modo per collegare il corpo del rappresentato e corpo della rappresentazione.
Fabre attinge i suoi riferimenti senza distinzioni di registri alti o bassi: di fonte a ad alcune di queste piccole visualizzazioni che costringono ad avvicinarsi, ad entrare un passo alla vota nella complessità dei loro racconti diviene ovvio il collegamento a l’Entrata di Cristo a Bruxelles nel 1889 del suo concittadino James Ensor. Ma le sculture presentate per la prima volta in Italia, sono giocate sul filo dell’ironia almeno quanto lo è la tradizione carnevalesca e folkloristica belga.
Ricorda il curatore Giacinto di Pietrantonio: «Nel tentativo di rovesciare il mondo e le sue regole, Fabre a interagisce con la visione di artisti del passato, in specie fiamminghi: la precisione per il dettaglio di Van Eyck, la predilezione per i corpi grassottelli di Rubens, ma soprattutto si ispira a quello che è forse il più “surrealista” dei surrealisti: Hieronymus Bosch. Nelle opere qui in mostra conchiglie e uomini, animali e piante subiscono surreali metamorfosi in un’orgia di colori, forme e sessualità rilette alla luce delle trasformazioni delle culture popolari».
È facile innamorarsi di questi squisiti lavori, come altrettanto facile è perdervisi in una contemplazione che richiede concentrazione ma restituisce respiro. Ma non lasciatevi ingannare: non si tratta, come potrebbe sembrare a prima vista, di oggetti alla portata di un cadeau natalizio.