Ti devi decidereIl Pd continua a discutere della sconfitta elettorale senza un’idea su cosa fare al Congresso

Dal 25 settembre la sinistra è ferma su una non-linea indefinita, incapace di decidere tra la testimonianza minoritaria-populista, al fianco dei Cinquestelle, o la vocazione riformista e di governo con il Terzo Polo

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Il meritorio dibattito sul futuro del Partito democratico apertosi sulle pagine di Repubblica è ricchissimo di spunti, idee, suggestioni e naturalmente tante critiche a quel partito e ai suoi gruppi dirigenti (Francesco Piccolo: «Lì dentro, nel Partito, ci sono persone grigie e timorose, caute e pronte a spendersi soprattutto per una rivalità molto virile»).

Ciò che accomuna tutti gli scritti è una vera e propria costernazione per il punto cui si è giunti con la batosta elettorale del 25 settembre e insieme il desiderio – anzi: il bisogno – di ritrovarsi sotto il cielo della sinistra perduta.

Se si scorre questa piccola enciclopedia (finora una sessantina di interventi) vi si trova materia non per uno ma per dieci congressi: dal primato dell’ambiente a quello del femminismo, dal ruolo dei cattolici all’orizzonte socialista o laburista, dal partito del radicalismo a quello liberale e moderato, dal ruolo dei sindaci alla ricostruzione di un vocabolario di sinistra, ce n’è per tutti.

E a pensarci bene in fondo stava qui il bello del Partito democratico quando nacque nel 2007 con Walter Veltroni (a proposito: come mai non interviene? È troppo disilluso?), c’era tanta roba, forse persino troppa, però era interessante proprio per questo, appariva come un caleidoscopio di idee e di colori.

Si è visto negli anni come l’amalgama non riesca, ognuno ha le sue risposte sulle responsabilità, sta di fatto che oggi più che mai è tempo di scelte chiare.

Ecco il punto dolente. Nelle decine di articoli pubblicati da Repubblica non esce con nettezza una proposta precisa sulla linea politica da seguire qui e ora, come se per ragioni varie tutti ritenessero necessaria prima una lunga seduta di psicanalisi per capire «chi siamo e cosa vogliamo», come si diceva nel Sessantotto, rimanda a un domani indistinto le scelte che bisogna fare oggi: come se l’identità fosse una categoria dello spirito e non la risultante di un’azione politica.

Insomma, così come l’uomo è ciò che mangia, un partito è ciò che propone. Ora, la domanda attuale, ricca di implicazioni sull’identità e sul futuro del Partito democratico, è semplice e non è affatto banale: andare verso il partito di Giuseppe Conte che formalmente si chiama ancora Movimento 5 Stelle o verso i liberaldemocratici del Terzo Polo?

Ovviamente non si tratta di una questione politicista o solo di tattica politico-parlamentare (anche se quest’ultimo aspetto ha una sua rilevanza, come si è visto nel dibattito sull’Ucraina nel quale il Partito democratico è stato con la maggioranza e il Terzo Polo lasciando fuori Conte) ma della famosa linea politica e strategica. Semplificando si è detto: Mélenchon o Macron? Cioè scegliere la testimonianza minoritaria-populista o riprendere la vocazione riformista di governo?

Alla fine è proprio per non aver sciolto per tempo questo dilemma, oscillando tra la passione per Conte e quella per Draghi, che Enrico Letta è arrivato alla campagna elettorale senza una proposta politica mentre tutti gli altri una linea ce l’avevano, e la destra più chiara degli altri.

Il Partito democratico ha corso dunque zavorrato da questa incapacità di indicare un’uscita politica per il Paese, ed è naturale che abbia perso. Chiariamo che il problema non è tanto degli intellettuali e politici intervenuti su Repubblica ma di un Partito democratico che continua a barcamenarsi con una non-linea: un po’ con questo, un po’ con quello e quindi con nessuno, ma non perché è forte ma per il suo contrario.

Il problema si rimanda, per esempio su quale sia il giudizio finale su un personaggio come Conte: è ancora considerato un possibile alleato? Una scelta politica sulle alleanze, quindi sul suo profilo, dovrebbe essere il cuore del Congresso, se fosse una vera sede di discussione politica, mentre dalle prime battute sta emergendo unicamente il susseguirsi di mosse e contromosse per tagliare il traguardo alle primarie del 19 febbraio, tra l’altro attraverso una modalità congressuale che non aiuterà la discussione tra gli iscritti perché la fase della discussione nei circoli sarà solo di un paio di settimane.

E così, mentre è in gioco il suo destino, il Partito democratico non sembra rendersene conto, esattamente come i protagonisti del Giardino dei ciliegi che chiacchierano del più e del meno mentre vanno in rovina. E la gran commedia di Cechov, com’è noto, non finisce bene.

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