«Per adesso di cibo ne abbiamo, anche se le consegne sono in tilt. Il problema vero sono i soldi». Emma (nome di fantasia) vive nella periferia di Pechino. Per la terza volta nel giro di due mesi il compound in cui vive si trova in quarantena preventiva. «Quando uscirò, dovrò recuperare le ore che ho perso al lavoro, altrimenti mi decurtano lo stipendio», racconta. «Ho accumulato già cinquanta ore di debito».
Una delle tante storie, non una delle più drammatiche, di chi in Cina si trova a far fronte alle restrizioni pandemiche. Una storia che fa capire quanto siano pratiche le preoccupazioni di chi è sceso in strada nei giorni scorsi nelle proteste più diffuse e trasversali degli ultimi decenni. La rabbia verso le politiche di contenimento del virus si intreccia con le loro conseguenze economiche, occupazionali, psicologiche.
Per la prima volta dalla stagione di riforma e apertura inaugurata da Deng Xiaoping all’alba degli anni Ottanta, i giovani cinesi sentono che potrebbero stare peggio dei propri genitori: hanno paura del futuro. Il tasso di disoccupazione tra i sedici e i ventiquattro anni si aggira intorno al diciotto per cento nelle aree urbane, livelli da record. Quasi dodici milioni di universitari termineranno gli studi nei prossimi mesi. Ma molti posti di lavoro sono scomparsi a causa delle restrizioni e delle campagne di rettificazione lanciate sulle imprese private.
Dopo ormai tre anni di pandemia e con un passo già dentro il terzo storico mandato di Xi Jinping da segretario generale del Partito comunista, il passato genera nostalgia. Anche quello che, quando era presente, non era così apprezzato. Persino Jiang Zemin, l’ex presidente appena morto di leucemia, può diventare un simbolo. L’uomo che ha traghettato la Cina nel post Tian’anmen, proseguendo le riforme economiche ma chiudendo la porta a quelle politiche.
Colui che ha salutato l’handover di Hong Kong e l’ingresso nell’Organizzazione mondiale del commercio, ma che ha impedito l’omologazione del «modello cinese», preservandone l’alterità contraddistinta dal ruolo pervasivo del Partito. Come accaduto con Hu Yaobang nel 1989, il leader di inclinazione riformista messo da parte perché accusato di fomentare la «liberalizzazione borghese», c’è chi immagina che il tempismo della scomparsa di Jiang possa costituire una scintilla per nuove proteste.
Xi farà di tutto per evitarlo. La reazione dopo le manifestazioni di domenica scorsa è stata immediata: rafforzamento del controllo sia dello spazio fisico sia di quello digitale. La polizia ha occupato i punti nevralgici delle metropoli, scoraggiando nuovi assembramenti di massa. Chi ha manifestato o ha condiviso immagini dei cortei ha spesso ricevuto telefonate o visite degli agenti.
In rete il bavaglio sta diventando ancora più stretto. La Cyber Space Administration ha portato al livello più alto l’emergenza degli interventi sul web. Tra le misure anche una possibile stretta sulle Vpn, le reti private virtuali che consentono agli utenti cinesi di aggirare la Great Firewall. L’obiettivo è prendere il controllo delle informazioni, disconnettere i giovani che hanno fatto uso estensivo di app come Telegram e Signal per organizzare le proteste, scoraggiandone di nuove.
Anche se riuscirà a disarticolare quello che è nato comunque come un movimento spontaneo, multicefalo e decentralizzato, il governo ora sa che qualcosa si è rotto nel rapporto con una parte della popolazione. E soprattutto ha scoperto che quello che è riuscito a evitare dal 1989 a oggi, cioè proteste diffuse con slogan rivolti contro la leadership, non è impossibile nonostante l’ultimo decennio di centralizzazione del potere. O forse proprio per questo.
Il segretario generale ha legato a doppio filo la sua immagine con la strategia zero Covid. Sin dal marzo 2020, quando visitando la Wuhan liberata dal primo lockdown dichiarò guerra al «demone del coronavirus».
L’eradicazione del virus è diventata una missione ideologica. I primi due anni di successi, con contagi e vittime infinitamente minori rispetto alla gran parte del resto del mondo, hanno consentito a Xi di presentare il modello cinese come superiore a quello occidentale. Proponendo una variante della salvaguardia dei «diritti umani», che la Repubblica Popolare avrebbe tutelato salvando vite durante la pandemia.
Niente adeguamenti al resto del mondo, no ai vaccini internazionali, nessun aggiustamento dopo la diffusione di mutazioni più trasmissibili ma meno letali. «La tenacia è vittoria», hanno ripetuto per mesi i media. Ma molti hanno iniziato a perdere il senso di una guerra che non vogliono più combattere.
Ecco perché la seconda direttrice della risposta alle proteste è quella di mostrarsi disponibili a concessioni. Non una riapertura totale, ma un parziale e graduale allentamento. Dopo le ultime manifestazioni (e scontri con la polizia) nella notte tra martedì e mercoledì, a Guangzhou sono usciti dal lockdown diversi distretti. Alcuni hanno riaperto scuole, ristoranti e cinema. A Chengdu non è più necessario un tampone negativo per recarsi nei luoghi pubblici, basta esibire il codice sanitario.
Persino in molte zone di Pechino, dove la cautela è tradizionalmente maggiore, chi è positivo può ora trascorrere la quarantena in casa senza che si renda necessaria la chiusura dell’edificio. Forse ancora più significativo lo scarto retorico degli ultimi giorni. La vicepremier Sun Chunlan, zarina anti Covid, per la prima volta non ha citato la «strategia zero Covid» in un discorso pubblico sulla pandemia.
I media di stato Xinhua e Global Times hanno diffuso ricerche in cui si sottolinea la minore virulenza delle ultime varianti. Ancora più audaci i media locali. Il Beijing News ha pubblicato alcune interviste a dei malati guariti, riducendo lo stigma sociale. Lo Zhejiang Daily ha sottolineato che gli interessi delle persone vengono prima di quelli del controllo epidemico.
Il tentativo del governo centrale è però quello di biasimare non le regole in sé (perché emanazione della leadership), ma la loro applicazione da parte di funzionari provinciali «troppo zelanti». Nei giorni scorsi la commissione nazionale per la sanità ha chiesto di revocare «in maniera tempestiva» le misure di controllo qualora possibile e promette di «gestire» le misure considerate «eccessive».
Lo stesso Xi, secondo il South China Morning Post, avrebbe citato le proteste durante l’incontro con Charles Michel di giovedì primo dicembre a Pechino, sostenendo che nascono dalla «frustrazione» causata da tre anni di Covid. E ora non vengono più nascosti alcuni scandali di cui si chiacchierava da mesi, come alcuni centri tampone che lucrano sui profitti.
Il tentativo è quello di guadagnare tempo, perché la riapertura totale che Goldman Sachs e Ups prevedono per metà 2023 spaventa ancora molto. Alcuni studi sostengono che potrebbe portare a milioni di contagi e di morti: uno scenario che potrebbe scalfire la legittimità di Xi e il Partito quanto le proteste. Nelle province rurali gli ospedali sono già pieni.
In caso di liberi tutti si teme il collasso di un sistema sanitario ancora in parte arretrato. Nel frattempo, l’intenzione è quella di accelerare sulla campagna vaccinale. In particolare per i più anziani. Per il momento solo il sessantasei per cento circa degli over ottanta ha ricevuto almeno due dosi dei sieri cinesi, gli unici disponibili nel Paese.
Con questo mix tra repressione, concessioni e diversivi, Xi spera di riuscire a rinsaldare il patto sociale con la popolazione cinese («meno diritti politici ma più benessere economico»), che ha iniziato a mostrare qualche crepa. Ma adesso, all’alba del suo terzo mandato, con un potere che sembrava ormai assoluto, è consapevole che qualcosa può ancora sfuggire al suo controllo.