Gli hanno detto che andavano a fare un’esercitazione. Che non avrebbero incontrato resistenza. Senza viveri, con mappe di cinquant’anni fa, alla deriva. In pochi giorni di guerra i soldati russi hanno perso l’unica superiorità di cui disponevano, quella aerea. Troppo pochi per presidiare vasti settori di fronte, le chiamate (intercettate) a casa piene di sorpresa prima e di frustrazione poi. Nessuno li aveva avvertiti fino alla notte prima di un’«operazione speciale» che avrebbero perso. L’Ucraina ha dimostrato che le manie di grandezza di Vladimir Putin erano come gli elmetti e i fucili sovietici riverniciati consegnati alle truppe: un residuato bellico, da secondo conflitto mondiale. Una potenza fantomatica, divorata dalla corruzione.
Lo ha ricostruito un monumentale lavoro del New York Times. Una serie di errori – e il coraggio e l’eroismo degli ucraini – hanno reso l’invasione un disastro. Fin dall’inizio. Mosca ha lasciato intatte le difese aeree di Kyjiv, o ha colpito le posizioni con un ritardo di giorni, quando erano già state spostate. In media, i nemici ci hanno messo tra le quarantotto e le settantadue ore a risalire la rigida catena di comando per farsi autorizzare i raid. I caccia volavano con sicumera, senza scorta. Sono stati sorpresi volando a bassa quota, sotto lo spettro del radar, o centrati con i lanciamissili Stinger forniti dagli alleati.
La fanteria della Federazione, ammassata sul confine bielorusso, ha saputo il 23 febbraio, od ore prima dell’inizio della marcia, che sarebbe andata in guerra. Gli ordini erano assurdi nella loro banalità: seguite il veicolo davanti a voi finché non entrerete nella capitale. Non accadrà mai. Le tabelle di cui il Times è in possesso, ritenute credibili da vari esperti militari, sono irrealistiche nelle tempistiche. Prospettavano un’avanzata di quattrocento chilometri, fino al fiume Dnipro, in ventiquattr’ore.
La storia ricorda da vicino quella della Duecentesima brigata, medagliata forza d’élite. Dopo nove mesi, è ridotta al sessanta per cento dell’organico. «Non può più essere considerata una forza di combattimento», ha spiegato un analista al Washington Post. Sul fronte di Kharkiv si sono distinti per aver sgretolato il mito costruito attorno a loro dalla propaganda. «La Duecentesima? Scappano molto bene», ha detto in un’intervista il generale Oleksandr Syrsky, alla guida della controffensiva nella regione. Per rimpinguare i ranghi, dimezzati dalle perdite, sono stati cooptati dei volontari. Più che truppe scelte, truppe sciolte.
Un altro fronte dove il Cremlino non ha (mai) sfondato è quello digitale. La cronologia dei precedenti ricalca quella del Donbas. Gli hacker al soldo di Mosca, come Sandworm, erano temuti, quasi celebrati dai media. L’attacco con cui nel 2015 sono riusciti a spegnere la rete elettrica ucraina era stato preparato in diciannove mesi, per un blackout durato sei ore. Alla vigilia dell’invasione hanno tentato una nuova incursione, disinnescata subito. Stati Uniti e Occidente si sono mobilitati per aiutare Kyjiv a respingerla: il codice infetto era carente, come se fosse stato programmato alla rinfusa. La minaccia più seria, all’alba del 24 febbraio, ha bersagliato le comunicazioni satellitari dell’esercito, ma il governo di Volodymyr Zelensky aveva un backup.
Intanto, le forze di terra russe restavano senza acqua e rifornimenti. Hanno iniziato a razziare case e villaggi. Telefonavano a casa con il cellulare privato: da un lato sono intercettabili, dall’altro consentono alle forze di Kyjiv di sapere esattamente dove si trovano. I difensori usano anche i video di TikTok per rintracciare i ceceni di Kadyrov e li bombardano a quaranta minuti dall’upload. Ammutinamenti e sabotaggi. Secondo il Pentagono, diversi autisti hanno forato i serbatoi; in quelli di trenta carri T-80 apparentemente intatti verrà trovata sabbia che li rende inservibili.
Putin pare incapace di uscire dalla bolla in cui si è rifugiato durante la pandemia. Per diciotto mesi non ha incontrato leader occidentali. L’isolamento accresce il distacco dalla realtà. Già nell’autunno 2021, quando il mondo scopre la concentrazione di uomini e mezzi alle frontiere con l’Ucraina, i suoi boiardi sono sicuri della vittoria. È convinto si ripeterà il copione della Crimea.
Il 24 febbraio raduna al Cremlino i maggiorenti dell’industria come platea per il suo delirio televisivo: tutti inquadrati, tutti sanzionati. Ma le sanzioni funzionano, malgrado lo sprezzo del dittatore e gli artifici dei tecnici che lo servono durante una guerra a cui sarebbero contrari. Erano considerati riformisti, sono complici. I loro sforzi per «salvare l’economia» preservano piuttosto la macchina bellica.
In patria, i media di Stato si bevono rassicurazioni. «La guerra finirà a giorni», gli viene detto ogni giorno. Le testimonianze e le e-mail raccolte dal giornale americano raccontano anche la falsificazione della potenza militare. Nel ventennio putiniano, i bilanci del governo stanziano miliardi di rubli per modernizzare le forze armate, ma la corruzione sistemica se li mangia. Quando ci sono visite ufficiali, i comandi vanno nel panico. È il caso della base della Kantemirovskaya, una storica divisione corazzata, dove non funzionano neppure i bagni. Viene issata una facciata finta nella cosmesi per nascondere edifici cadenti.
Oltre a non essere state addestrate, le truppe non si coordinano. Il Gruppo Wagner spesso combatte da solo. È lo stesso copione di Bakhmut, nel Donbas, dove i mercenari reclutati da Evgeny Prigozhin nelle carceri sono meglio equipaggiati della carne da cannone scaraventata al macello per dare a Putin una vittoria che manca da sei mesi. Dopo una lite, nella regione di Zaporizhzhia, un carrista ha sparato su un posto di blocco dei rivali della Guardia nazionale russa. I soldati di Kyjiv, riferisce il Washington Post, a luglio hanno intercettato una comunicazione in cui un ufficiale sbraitava ai sottoposti, che si sarebbero rifiutati di salire su un carro armato. «Volete che vi mostri come si uccidono gli ucraini? Guiderò io». Subito dopo un missile Javelin ha distrutto il mezzo.
Tra i plotoni serpeggia lo stesso malcontento. Anche i più ideologizzati sono delusi dai loro superiori. Vengono sacrificati e dimenticati. La risposta di Putin alla madre di uno di loro è eloquentemente inquietante: «Almeno non è morto di alcolismo». La decisione di cancellare la conferenza stampa di fine anno è al tempo stesso un segnale di debolezza, di volontà di sottrarsi al confronto, e senso di impunità. La pretesa, dopo vent’anni, di dover rispondere solo alla Storia, non certo ai giornalisti.
Il presidente è volato a Minsk ad abbracciare l’eterno vassallo Aleksandr Lukashenko, che gli consente di usare una nazione come base per bombardare l’Ucraina, ma (finora) non è entrato in modo diretto nel conflitto. Ufficialmente i due hanno parlato di economia. «La Bielorussia è un alleato nel vero senso del termine», ha dichiarato Putin alle telecamere. Nello stesso giorno ha annunciato un’esercitazione navale con la Cina, a ribadire l’alleanza di fatto con Pechino.
In un’intervista all’Economist, Zelensky e i suoi generali sono molto cauti sulla retorica della «vittoria». Dicono che le sorti del conflitto restano precarie, in equilibrio. Ammoniscono soprattutto sulla capacità di mobilitazione russa, cinque volte maggiore dei programmi europei e britannici per addestrare trentamila soldati ucraini in un anno e mezzo. Anche se in questo momento, per gli osservatori, il Cremlino non ha le forze per aprire un secondo fronte, a Kyjiv temono questa eventualità.
I ministri della Difesa di Mosca e Minsk hanno da poco firmato un nuovo accordo militare. La Bielorussia, dove si trovano tra i dieci e i quindicimila effettivi russi (una frazione di quelli dislocati lì a febbraio), ha appena testato la prontezza operativa dell’esercito. Potrebbe essere l’ennesima mossa per indurre gli ucraini a spostare i loro reparti di stanza nel Sud e nell’Est del Paese. L’ultima volta che Lukashenko l’ha fatto mancavano pochi giorni alla guerra. Una guerra che Putin sta perdendo dal 24 febbraio.