Un piccolo passoLa Commissione propone di conferire alla Bosnia lo status di Paese candidato

Adesso toccherà agli attuali membri dell’Unione decidere sull’adesione di Sarajevo. Il governo dello Stato balcanico, invece, è chiamato a una serie di riforme in 14 settori chiave

Bandiere Bosnia ed Ue
European Union

Dopo sei anni e mezzo di attesa, la Bosnia-Erzegovina compie il primo, piccolo, passo verso l’ingresso nell’Unione europea. A febbraio 2016 il Paese balcanico aveva presentato la sua domanda di adesione e ora la Commissione europea propone che questa richiesta si traduca nell’assegnazione dello status di Paese candidato, prima tappa del percorso.

Ma per Sarajevo non è tutto oro ciò che luccica: il lungo rapporto che accompagna la decisione evidenzia lacune in settori cruciali dello Stato e l’approvazione della candidatura, per cui è necessaria l’unanimità degli attuali Paesi membri dell’Ue, non è affatto scontata.

Un percorso difficile
Se ottenesse l’approvazione dei 27, la Bosnia-Erzegovina raggiungerà nella lista d’attesa dei candidati all’adesione Moldova e Ucraina, che l’avevano in qualche modo «scavalcata» ottenendo il via libera lo scorso giugno, pochi mesi dopo aver presentato richiesta.

Un gradino più in alto nel processo di entrata ci sono, con prospettive differenti, Albania, Macedonia del Nord, Montenegro, Serbia e Turchia, tutte nella fase dei «negoziati di adesione». Con i governi di Tirana e Skopje sono state aperte da poco le trattative, mentre per gli altri tre Paesi si può parlare di «processo congelato»: la Serbia ha aperto i negoziati nel 2014, il Montenegro nel 2012 e Turchia addirittura nel 2005, senza che da allora siano stati registrati progressi significativi.

Il successo dunque non è scontato, ma Sarajevo resta perlomeno un segnale di incoraggiamento. «È un’offerta importante che facciamo con grandi aspettative», ha detto il commissario all’Allargamento Olivér Várhelyi, sottolineando come i leader politici bosniaci debbano concentrarsi sulle riforme chieste dall’Unione.

Per entrare nell’Ue, infatti, ogni Paese deve rispettare una serie di parametri, detti «criteri di Copenaghen»: istituzioni stabili che garantiscano democrazia, diritti e rispetto delle minoranze; un’economia di mercato funzionante e la capacità di assumere gli obblighi relativi agli obiettivi dell’Unione in materia politica, economica e monetaria.

Nel 2019 la Commissione aveva fornito una prima analisi sulla domanda di ingresso bosniaca, evidenziando 14 settori tematici in cui il Paese avrebbe dovuto compiere significativi miglioramenti per guadagnarsi la membership europea.

Tra queste ci sono lotta alla corruzione e al crimine organizzato, organizzazione del sistema giudiziario, libertà di espressione e funzionamento del sistema di asilo per i migranti.

Non in tutti i campi sono stati registrati progressi, anzi: come si legge nel rapporto, il parlamento ha rigettato una legge sul conflitto di interessi, le misure anti-crimine rimangono deboli e le interferenze politiche sul lavoro della polizia permangono, mentre mancano argini legislativi adeguati al riciclaggio di denaro e alle attività terroristiche.

Le autorità bosniache non collaborano con Europol, l’ufficio europeo di polizia, né con Eurojust, l’agenzia di cooperazione giudiziaria dell’Unione Europea.

Passi in avanti limitati sulla riforma della pubblica amministrazione e nessuno sul sistema giudiziario, con una magistratura che è difficile definire imparziale e indipendente. Va un po’ meglio la gestione dei flussi migratori, anche se il controllo dei confini e l’accesso all’asilo non sono impeccabili, e la tutela dei diritti delle minoranze.

In particolare, sottolinea la Commissione, i piani d’azione per l’inclusione delle persone di etnia rom e per quelle appartenenti alla comunità Lgbtq adottati nel 2022 sono segnali nella giusta direzione.

Stallo infinito
Ma è sul piano economico e politico che si riscontrano forse le carenze più preoccupanti. La Bosnia-Erzegovina è, secondo la relazione, «in una fase arretrata dell’istituzione di un’economia di mercato funzionante» e non ha compiuto progressi significativi in quest’area. Oggi come oggi, non sarebbe pronta a «resistere alla pressione delle forze di mercato dell’Ue».

La mancanza di riforme adeguate negli ultimi tempi, giustificata dal commissario Várhelyi con la campagna elettorale che ha portato alle elezioni di ottobre, è causata anche da uno stallo politico difficile da risolvere e probabilmente legato alla complessa struttura governativa del del Paese.

La Bosnia-Erzegovina è infatti divisa in due entità: da una parte la Federazione omonima, abitata da croati, in prevalenza cattolici, e bosgnacchi, in prevalenza mususlmani; dall’altra la Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina, abitata da serbi, in prevalenza ortodossi e costantemente attraversata da spinte separatiste. Entrambe dispongono di un proprio parlamento, che si somma al parlamento bicamerale nazionale.

Ogni etnia sceglie il suo rappresentante nella presidenza tripartita che guida il Paese, ma anche cinque membri a testa della camera alta del parlamento comune. Dato che ogni legge statale necessita l’approvazione di tutti i gruppi etnici, sia serbi che croati e bosgnacchi detengono di fatto un «diritto di veto» nella politica nazionale, in grado di bloccare l’attività legislativa.

Cosa che è accaduta, secondo l’analisi della Commissione, fino alla primavera del 2022, a causa dei rappresentanti della Repubblica Serba, che ha anche tentato di sottrarre allo Stato centrale alcune competenze in materia di tassazione, difesa e sicurezza.

Un quadro contorto, che è molto complicato raddrizzare: servirebbe in primis una riforma della legge elettorale, come ha detto Várhelyi e come aveva proposto anche l’alto rappresentante per la Bosnia ed Erzegovina Christian Schmidt, una figura nominata dai governi internazionali per supervisionare sull’attuazione degli accordi di pace che posero fine alla guerra nel Paese, nel 1995.

Solo che ogni modifica dell’assetto istituzionale richiede l’assenso delle tre comunità etniche, difficilmente disposte a rinunciare al proprio peso politico in favore di un sistema sviluppato su base nazionale. Per superare il «diritto di veto» con cui la Repubblica Serba paralizza le riforme necessarie in Bosnia-Erzegovina, quindi, dovrebbero essere d’accordo gli stessi rappresentanti dei serbi bosniaci.

Una dinamica che ricorda da vicino quella del Consiglio europeo, dove è necessaria, l’unanimità anche per modificare il criterio stesso del voto all’unanimità. Almeno in questo aspetto, la Bosnia-Erzegovina sembra già perfettamente integrata nell’Ue.

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