«La prima autostrada sostenibile d’Europa è italiana». Nelle ultime settimane potrebbe esservi capitato di incappare in titoli di giornale di questo tipo, scritti tutti più o meno alla stessa maniera. La notizia a cui si riferiscono è la futura ripavimentazione del tratto di strada di duecentocinquanta chilometri sulla A4 Torino-Milano, che per la prima volta – almeno a livello europeo – avverrà utilizzando un materiale fatto di grafene, plastiche dure e asfalto riciclati.
Da alcuni anni, infatti, gli esperti del settore sono al lavoro per mettere a punto alcuni processi per creare asfalto da materiali riciclati. Lo hanno confermato anche Riccardo Chirone e Bianca Vaglieco dell’Istituto di scienze e tecnologie per l’energia sostenibile e la mobilità del Cnr (Consiglio nazionale delle ricerche), per cui quella dell’asfalto riciclato è una pratica ormai piuttosto nota: «Può essere ottenuto da asfalto rimosso, da un mix di materiali quali grafene, plastiche dure riciclate (tipo giocattoli, cassette della frutta, cestini, eccetera) e da asfalti “modificati”, come quelli ottenuti con l’aggiunta di polverino di gomma da riciclo di pneumatici giunti a fine vita», spiegano a Linkiesta.
L’obiettivo è quello di utilizzare scarti e rifiuti che, se non impiegati in attività di questo tipo, finirebbero in discarica o dentro un termovalorizzatore. Una strategia che quindi contribuisce a ridurre l’utilizzo di nuove materie prime, fossili. In riferimento a questo, il Gruppo ASTM – la società leader nella progettazione e realizzazione di grandi opere infrastrutturali che si occuperà di ripavimentare la Torino-Milano – ha specificato che «rispetto ad una pavimentazione realizzata con metodologia tradizionale, per questa attività verranno riutilizzati circa 1,5 milioni di chilogrammi di plastiche dure (pari circa al peso di oltre milleduecento automobili), risparmiando quasi 23 milioni di chilogrammi di bitume e circa 480 milioni di chilogrammi di materie prime».
Cifre e processi notevoli che mostrano, tra le altre cose, gli enormi passi avanti fatti dalla tecnologia edile fino ad ora. Pratiche tuttavia che, se contestualizzate e valutate insieme a decine di altre variabili, potrebbero non essere abbastanza per etichettare come «sostenibile» una lingua di asfalto lunga duecentocinquanta chilometri. «Purtroppo, il termine sostenibile è spesso utilizzato per vantare proprietà ecologiche non sempre esistenti», hanno confermato i ricercatori. Motivo per cui il 28 novembre il Consiglio europeo ha approvato la Corporate sustainability reporting directive, una direttiva che di fatto obbliga le aziende a pubblicare informazioni dettagliate in merito al proprio impatto ambientale sulla società e sulle persone per evitare claim ingannevoli.
Utilizzare espressioni generiche come «rispettoso dell’ambiente» o «biodegradabile» sarà vietato, a meno che tali affermazioni non vengano dimostrate e verificate da un ente indipendente e «supportate da una analisi di impatto ambientale effettuata lungo tutto il ciclo di vita (dalla culla alla tomba) di un prodotto o servizio con la metodologia Lca, Life cycle assessment». Si tratta di un sistema che consente di verificare se un prodotto è più o meno sostenibile di un altro prodotto simile, oppure di valutarne l’impatto ambientale rispetto ai parametri di riferimento della categoria a cui appartiene l’articolo.
Quindi, utilizzando le parole dei ricercatori, «anche nel caso dell’autostrada si può dire che sia più o meno sostenibile rispetto ad un’altra solo dopo aver condotto studi Lca completi». Fino ad allora, utilizzare il termine «sostenibile», senza parlare del “prima” e del “dopo”, «della culla e della tomba», potrebbe dunque risultare fuorviante e inesatto: valutare il prodotto finale senza conoscerne i processi che gli ruotano attorno è piuttosto limitante. Basti pensare che, come hanno fatto notare Chirone e Vaglieco, «il recupero ed il riciclo di materiali per la produzione di asfalti riciclati richiede differenti trattamenti sia fisici (raccolta, triturazione, setacciatura, eccetera) sia termochimici (riscaldamento, fusione, additivazione). Tali processi, così come i processi di produzione di asfalto da materiali vergini, sono energivori e possono avere considerevoli impatti ambientali».
Se da una parte è chiaro che generare materiali utilizzando scarti e riciclando prodotti giunti a fine vita è da preferire in un’ottica di economia circolare, «l’effettiva maggiore sostenibilità richiede un’analisi oggettiva di tutti i processi coinvolti. Infatti, uno stesso iter può essere più o meno sostenibile ad esempio in funzione del tipo di energia utilizzata (rinnovabile o fossile, ndr)» o tenendo conto di quali mezzi siano stati impiegati per (in questo caso) trasportare e stendere l’asfalto. È chiaro che includere nella valutazione tutti questi elementi incide sulla sostenibilità (o meno) di un prodotto.
I ricercatori del Cnr hanno sottolineato che la maggior parte della letteratura scientifica internazionale che ha affrontato il tema della valutazione degli impatti ambientali di un asfalto “tradizionale” e di uno “green” – e da cui emerge una maggiore ecosostenibilità del secondo (seppur variabile a seconda della sua composizione) – ha utilizzato l’approccio “from cradle to gate” – “dalla culla al cancello” – «che esclude dall’analisi, per mancanza di dati sulla usura/manutenzione di pavimentazioni green, le fasi di esercizio e di smaltimento». Qui ci riferiamo alle procedure che completerebbero il ciclo di vita del prodotto e permetterebbero di dare un giudizio più accurato, a tutto tondo.
È anche vero che alcune cose, in base ai pochi numeri a disposizione, possiamo dirle. È emerso ad esempio che «l’asfalto riciclato ha una durata e richiede una manutenzione praticamente uguale a quello dell’asfalto tradizionale» e che «l’aggiunta di alcuni componenti all’asfalto migliora il comfort del viaggio», senza necessariamente aumentarne la sostenibilità ambientale. Il polverino di gomma ottenuto dal riciclo pneumatici, ad esempio, riduce la rumorosità data dal contatto della ruota con l’asfalto. Tale “ingrediente”, inoltre, è in grado di ridurre l’invecchiamento della pavimentazione, migliorandone il suo drenaggio: in caso di forte pioggia, per intenderci, l’effetto “splash and spray” – inevitabile per via della rotazione dei pneumatici sull’asfalto – si riduce drasticamente.
Arrivati a questo punto è chiaro che il problema non è del “nuovo” asfalto in sé. La criticità sta nell’uso delle parole, le stesse con cui si continua ad indicare come “sostenibile” qualsiasi cosa ne abbia pure lontanamente la parvenza. Anche perché, insomma, lo abbiamo ormai capito: la questione ambientale è una cosa su cui non possiamo più permetterci scivoloni e ambiguità. Raggiungere per davvero l’obiettivo di aumentare l’ecosostenibilità delle strade – e di tutte le infrastrutture – consentirebbe di abbattere le emissioni di sostanze dannose per l’ambiente molto più in fretta.
È stato stimato, per fare un esempio, che considerando tutte le sue fasi di produzione il calcestruzzo (da solo) sia responsabile del quattro-otto per cento della CO2 mondiale. Visto che – pur auspicando un futuro predominato da mobilità sostenibile – avremo ancora molto a che fare con l’asfalto e i suoi “simili”, «è bene spingere e investire su soluzioni che aumentino la sostenibilità degli interventi di realizzazione e manutenzione delle nostre infrastrutture», lasciando però da parte etichettature premature.