Wir sind kein Papst!Il rapporto complicato tra Benedetto XVI e l’élite cattolica tedesca

Joseph Ratzinger è stato molto più romano che teutonico, e ai propri connazionali spesso non l’ha mandata a dire

LaPresse

Fra i momenti iconici del pontificato di Benedetto XVI non può mancare la copertina della Bild il giorno successivo alla sua elezione con il leggendario titolo: Noi siamo Papa! (Wir sind Papst!). Quel titolo fu una trovata effettivamente geniale, segno di un momento particolarmente favorevole per la riscoperta in positivo di un’identità tedesca che, dopo l’elezione nel 2005 di un pontefice tedesco (la prima dal Medioevo) e della prima donna alla Cancelleria, si vide coronata ai mondiali di calcio dell’anno successivo, quando per la prima volta dopo il nazismo venne rotto il tabù dello sventolare in massa bandiera e colori nazionali senza per questo sentirsi folli nazionalisti. Per la Germania una conquista collettiva assai più rilevante del terzo posto al torneo calcistico.

Sia il titolo della Bild, sia quello sfacciato de Il Manifesto (“Il pastore tedesco”) probabilmente colsero a loro modo un segmento rilevante dell’opinione e del sentimento del proprio pubblico di riferimento, tuttavia di entrambi può dirsi – col senno di poi – che sbagliarono nell’individuare nell’identità nazionale un tratto qualificante della vita e dell’opera di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI. In questo egli sicuramente si scostò dal profilo del suo predecessore, quel Giovanni Paolo II (1920-2005) che aveva fatto del proprio essere polacco un tratto distintivo del proprio pontificato e la cui elezione e azione da polacco sulla Cattedra di Pietro contribuì decisivamente a risvegliare quel patriottismo che diede la spallata fatale ai regimi realsocialisti.

Che Benedetto XVI non fosse Giovanni Paolo II era chiaro a tutti. Anzitutto a lui stesso, la cui prima frase pubblica da Papa (“un semplice e umile lavoratore nella vigna del Signore”) fu un’ammissione di ammirante diversità dal predecessore e di ritrosia verso l’idea di essere un “grande” che cambia la storia. Benedetto XVI è stato un Papa del discorso lungo, della parola non improvvisata ma frutto di ricerca e meditazione, uno di cui era necessario prendere appunti e magari leggere e rileggere il testo originale, uno sforzo spesso necessario per poterlo comprendere e non solo per sfuggire alla pessima stampa di cui ha goduto prima, durante, dopo e soprattutto a prescindere dal suo operato.

Egli fu sempre, anche dopo aver lasciato nel 1977 da vicerettore l’Università di Ratisbona per diventare arcivescovo, un professore universitario a riposo profondamente contraddistinto dal modo di parlare ed argomentare dell’accademia, un Prof. Dr. Papst cultore e custode del lógos e perciò disarmato e travolto di fronte alla comunicazione di massa in tempo reale dove le immagini contano più delle parole, il titolo più del testo, l’impressione più del contenuto. Certo, i primi due viaggi dell’allora nuovo pontefice in Germania furono un trionfo.

A Colonia in occasione della Giornata Mondiale della Gioventù 2005 (pochi mesi dopo l’elezione) Ratzinger fu acclamato da oltre un milione di giovani cattolici di tutto il mondo con un entusiasmo che quasi nessuno si aspettava. Il suo arrivo in barca su un Reno le cui rive erano stracolme di giovani che giubilavano il pontefice tedesco sembrò poter diventare un simbolo per una Chiesa viva, gioiosa e risvegliata. L’anno successivo la sua Baviera gli riservò un’accoglienza popolare immensa, le scuole rimasero chiuse per consentire a tutti di andare a vedere di persona il Papa e persino l’allora nuova Cancelliera Angela Merkel dovette cantare l’inno nazionale bavarese insieme a tutta Monaco. Mentre lei però leggeva il testo dagli schermi, il Papa, orgoglioso e commosso, lo sapeva e cantava a memoria.

Di Benedetto XVI disse l’allora Cardinale di Colonia Joachim Meisner (1933-2017): È intelligente quanto dieci professori universitari e devoto come un bimbo della prima comunione. Se di una definizione così si può certo essere orgogliosi, essa fu però per Joseph Ratzinger in patria una condanna. L’entusiasmo dei primi tempi non si tradusse infatti mai in proficua armonia fra Papa Benedetto e una larga parte dell’episcopato e del laicato tedesco. I cambiamenti nella Chiesa che il pontefice bavarese aveva in mente e simboleggiava e le richieste di riforma di diversi vescovi ed associazioni laicali nella sua patria hanno viaggiato su binari visibilmente e rumorosamente divergenti. Come ha raccontato su Kater Gregor Christiansmeyer ad aprile 2020, la compresenza e convivenza con il protestantesimo tedesco – molto più sincronico con opinioni forti e tendenze dominanti nelle società occidentali contemporanee – ha fatto del cattolicesimo in Germania un terreno fertile per chi si auspica una Chiesa “al passo coi tempi”, che corrisponda al mondo nel quale vivono i suoi fedeli e sappia – attraverso un sempre maggiore avvicinamento ai fratelli protestanti – in un certo modo anche superare se stessa.

Grazie a meccanismi peculiari per la Chiesa cattolica in Germania come il pingue finanziamento della tassa ecclesiastica obbligatoria, l’elezione dei vescovi per cooptazione tramite il clero locale e l’insegnamento della teologia in università statali – peculiarità ancorate nel diritto costituzionale tedesco e nei Concordati degli anni Venti stipulati dall’allora Nunzio apostolico Eugenio Pacelli con i Länder e dunque pressoché intoccabili – le posizioni cosiddette progressiste sono particolarmente forti nelle facoltà teologiche e nelle curie diocesane, cioè fra quei professori e vescovi che dall’ex Sant’Uffizio il cardinal Ratzinger ebbe per un quarto di secolo il compito di controllare e redarguire.

Un Ratzinger che, fin da quando era giovane prete negli anni Cinquanta, individuò invece in una crisi della fede in Dio la ragione di crisi della Chiesa in Occidente e che da Papa cercò di orientare ad un rafforzamento nella fede cattolica e non ad un adattamento ai tempi l’agenda del cattolicesimo mondiale. Per lui la patria tedesca fu tutt’altro che un modello cui adeguarsi, quanto piuttosto un’icona di un Occidente relativista e paganeggiante nel quale coltivare oasi di fede ed operosità come fece un altro grande Benedetto, il monaco di Norcia. Da cui Ratzinger non a caso scelse il nome pontificale.

La frattura fra l’élite del cattolicesimo tedesco ed il pontefice connazionale divenne evidente alla fine del terzo viaggio di Benedetto XVI in Germania, sei anni dopo il primo. In quelle intense giornate del settembre 2011 Benedetto seppe intessere una tela di comunanza con quella che apparentemente sarebbe dovuta essere per lui la controparte: a Berlino indicò, con un memorabile discorso ai deputati del Bundestag, in un dialogo sulla ragione tra credenti e non credenti la base per una nuova intesa sui valori capace di resistere ai cambi di maggioranze e lodò il movimento dei Verdi come “un grido che anela all’aria fresca [nella politica], un grido che non si può ignorare né accantonare”, mentre a Erfurt di fronte ai vertici del protestantesimo tedesco accolse come propria e rivolse alla propria Chiesa la domanda centrale di Martin Lutero sul male e sul rapporto individuale con Dio, che “deve diventare di nuovo, e certamente in forma nuova, anche la nostra domanda”.

Eclatante fu però la conclusione del viaggio, quando a Friburgo, di fronte ai connazionali cattolici lì riuniti, il Papa predicò con convinzione una Chiesa che si “smondanizzasse”, che rinunciasse ai privilegi fiscali e giuridici ottenuti nel passato e che le garantiscono in Germania ingenti risorse e un ruolo pubblico costituito, una Chiesa con meno lavoratori dipendenti e più volontari che abdicasse a soldi e potere per orientarsi esclusivamente all’annuncio del Vangelo e alla fedeltà alla propria tradizione.

Alla Chiesa tedesca Benedetto XVI rimproverò esplicitamente “un’eccedenza delle strutture rispetto allo Spirito” e la ammonì ricordandole che “se non arriveremo ad un vero rinnovamento nella fede, tutta la riforma delle strutture resterà priva di effetti”. Ai critici del fronte cosiddetto progressista Papa Benedetto indicò come modello alternativo una Chiesa che accettasse di essere una minoranza nella società secolarizzata e fosse sì più piccola nei numeri, ma più povera, ancorata alla propria fede e più consapevole alla propria natura mondiale. Insomma, meno tedesca e più cattolica. L’accoglienza fu glaciale, il rifiuto evidente. E contraccambiato: l’allora Arcivescovo di Friburgo Robert Zollitsch, padrone di casa dell’incontro col Papa ai piedi della Foresta Nera, fu il primo Presidente della Conferenza episcopale tedesca nella storia a non essere elevato a cardinale, una scelta che il successore di Benedetto, Francesco, non ha mancato di confermare.

E mentre Ratzinger non aspettò neppure la pubblicazione della sua stessa ultima enciclica prima di dimettersi (poi firmata dal successore), egli attese invece che fosse fresca di stampa (e quindi non più modificabile) la nuova edizione del Gotteslob, il libro di canti e preghiere presente in ogni chiesa della Germania e dell’Austria e nella casa di pressoché ogni fedele, frutto di un decennale lavoro preparatorio di musicisti, liturgisti e teologi. Una cosa che, per uno come Ratzinger, non poteva certo essere lasciata al caso o, peggio, ai detrattori.

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