Luci e ombreIl complesso pontificato di Papa Benedetto XVI e la sua eredità spirituale

Secondo il vicario apostolico d’Istanbul Massimiliano Palinuro, Ratzinger «ha insegnato alla Chiesa che non si può inseguire la popolarità a tutti i costi, svendendo il tesoro della verità». Per Paolo Gamberini, «lo spirito innovativo dominato dall’enfant terrible della coscienza individuale, è coesistito con quello premoderno dell’autoritarismo». Mentre per Salvatore Maria Perrella, il suo più grande limite è di non aver mai cessato di essere un professore

LaPresse

La morte di Benedetto XVI, avvenuta sabato 31 dicembre ha riacceso i riflettori sulla figura del teologo Joseph Ratzinger che, da professore in diverse università tedesche e perito al Vaticano II, sarebbe successivamente divenuto cardinale arcivescovo di Monaco e Frisinga (1977-1981), prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede (1981-2005), 264° successore di Pietro (2005-2013) e, a seguito delle epocali dimissioni annunciate l’11 febbraio 2013, Papa emerito. E così, mentre dall’altrieri la sua salma è esposta in San Pietro all’omaggio di fedeli e visitatori, continua a fervere su di lui un dibattito dai toni estremizzati, in cui, come già accennato qui su Linkiesta, a incondizionati osanna si accompagnano spietati crucifige. 

Nell’ottica di ulteriore approfondimento della complessa figura di Benedetto XVI presentiamo oggi i punti di vista differenziati di tre figure di rilievo, che hanno avuto modo di collaborare direttamente con Ratzinger o sono comunque profondi conoscitori del suo pensiero: Massimiliano Palinuro, Paolo Gamberini, Salvatore Maria Perrella.

Già docente di Nuovo Testamento e professore incaricato di Filologia greca neotestamentaria a Napoli presso la Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia meridionale, Massimiliano Palinuro è dal 14 settembre 2021 vicario apostolico di Istanbul e amministratore apostolico dell’esarcato di Costantinopoli. Il giovane e dotto  vescovo – compirà 49 anni in giugno –, che, prima di essere scelto da Papa Francesco per un incarico di particolare delicatezza e grande prestigio, è stato per dieci anni missionario fidei donum in Turchia, parte da una premessa di fondo nell’esprimere a Linkiesta la sua articolata riflessione: «Quando si cerca d’ingabbiare una personalità del calibro di Benedetto XVI con etichette di tipo ideologico quale conservatore o tradizionalista, si commette una gravissima riduzione. Ma si dimentica soprattutto che la verità è carità ed espressione della misericordia, come ci ricorda il versetto del Salmo 80 (11): Misericordia e verità s’incontreranno, giustizia e pace si baceranno».

Il presule è d’altra parte consapevole come «in certi ambienti della Chiesa la fedeltà alla verità, al dato rivelato, venga utilizzata spesso contro la persona e a prescindere dalla dignità della persona. Questo è alla base del fanatismo e del radicalismo, prodotti da ogni presunta possessione della verità. Ma esiste una proclamazione della verità nella carità, che è specifica della verità di Cristo stesso e di cui il grande Papa Benedetto XVI ha dato prova». A suo parere Joseph Ratzinger, «durante l’intero pontificato e prima ancora nel lungo periodo di servizio come cardinale prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, ha individuato con chiarezza nell’indifferentismo e nel soggettivismo morale il nemico principale della persona, perché l’uno e l’altro rischiano di distruggere ogni convivenza umana. Nell’assolutizzazione dell’io si sono consumati i più grandi drammi delle ideologie del XX secolo: indifferentismo e soggettivismo sono e rimangono un problema da risolvere non soltanto per il cristianesimo e per le altre espressioni religiose ma per la società umana. Benedetto XVI ha proclamato tutto questo in maniera coraggiosa, senza essere un conservatore ottuso. Ha semplicemente difeso con energia la dignità della persona umana, che rischia di essere vittima dell’io assoluto come unica e razionale verità». 

Da cosa s’evinca un tale coraggio il vicario apostolico d’Istanbul non ha dubbi: «Non ha piegato sé stesso né la Chiesa al consenso delle masse, al bisogno di fare audience. Ha insegnato alla Chiesa che non si può inseguire la popolarità a tutti i costi, svendendo il tesoro della verità. Ma l’essere impopolare e sgradito rischia di lasciarti solo anche nella Chiesa, eppure Papa Benedetto non ha avuto paura di rimanere solo, pur di proclamare una verità scomoda. Verrà un giorno in cui il suo coraggio sarà compreso, apprezzato, premiato. D’altra parte, più che conservatore arroccato sulla difesa di valori irrinunciabili, lo descriverei più generosamente e veritieramente come un nocchiero fedele al timone della Chiesa: il buon nocchiero nel momento della tempesta tiene diritta la barra e saldo il timone, per evitare che siano i marosi a determinare la rotta dell’imbarcazione».

Ma non mancano ombre nel pontificato benedettino, di cui Palinuro preferisce pur sempre parlare nei termini di «limiti. Quello fondamentale, che io umilmente intravedo, è stato determinato dalla di lui bontà, che non gli ha permesso di riconoscere i nemici o gli intriganti o gli approfittatori, insinuatisi in qualche momento o in qualche luogo del suo governo: questi l’hanno portato a compiere alcune scelte, che sono state poi purtroppo giudicate negative e che sono di fatto negative». In ogni caso quello dei collaboratori è, come noto, un problema antico. Infatti, «accanto a ogni grande papa della storia si sono a volte installati alcuni personaggi loschi che, facendosi forti dell’autorità del pontefice, hanno portato avanti i propri interessi e ambizioni personali. Questo spiega come mai Papa Francesco tenga a bada i suoi collaboratori e favorisca un continuo ricambio: evitare che si ricreino sacche di potere attorno a sé. Purtroppo, Benedetto XVI, uomo di grande fede e bontà, non ha saputo riconoscere alcune persone, che recitavano una parte, mentre, fuori dal diretto controllo del Papa, svolgevano poi un ruolo diverso. Indubbiamente, non c’è colpa morale quando non ci sono volontà e responsabilità nel compiere male. Ma gli effetti di alcuni atti sono stati in alcuni casi devastanti. Papa Francesco ha raccolto pertanto un’eredità difficile: da qui la necessità di purificare la Curia e di continuare in un’opera così opportuna».

Eppure, Bergoglio non hai mai mancato di indicare nel suo predecessore «un punto di riferimento imprescindibile e irrinunciabile. Quando si parla di discontinuità assoluta tra il pontificato di Francesco e di Benedetto, si commette lo stesso errore della discontinuità del prima e dopo Vaticano II: c’è una continuità e un progresso, com’è sempre avvenuto e sempre avverrà nella vita della Chiesa. Papa Francesco sta seguendo il coraggio di Benedetto, non temendo di restare solo. Il confronto massmediatico tra i due pontefici, favorente la vulgata di una loro contrapposizione, è solo uno strumento in più per chi vuole accrescere questa polarizzazione tra destra e sinistra, conservatori e progressisti». È indubbio, conclude il vescovo, che si tratta di «due personalità diverse dai carismi diversi: ma l’una e l’altra sono state rispettivamente strumentalizzate a proprio uso e consumo da conservatori e progressisti, che hanno in realtà contrapposto due figure tra loro complementari. Chi contrappone Papa Benedetto a Papa Francesco è come chi contrappone la verità alla misericordia. Ma la misericordia senza la verità diventa solo melensa sdolcinatura così come la verità senza misericordia diventa tortura e annientamento della persona: ogni verità, che diventa superiore alla persona umana, è puro fariseismo. Volendo parafrasare il detto di Gesù: Il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato, si potrebbe dire che la verità è stata fatta per l’uomo e non l’uomo per la verità». 

Entrato nella Compagnia di Gesù nel 1983, il ravennate Paolo Gamberini è un teologo dal pensiero profondo e non convenzionale, che, già professore associato alla University of San Francisco in California, insegna alla Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale (Sezione San Luigi). Numerose le sue pubblicazioni, l’ultima delle quali intitolata Deus 2.0. Ripensare la fede nel post-teismo s’inserisce nel solco di un’originale ricerca, condotta negli ultimi anni e incentrata su una prospettiva teologica che lo stesso autore chiama “monismo relativo”. 

A suo giudizio di Benedetto XVI è soprattutto da apprezzare «la formazione teologica, specialmente quella in cui s’espresse nei primi anni ’60 con una concezione aperta del Concilio, un concilio inteso quale forza vitale». Ne è una riprova il Commento alla Gaudium et Spes, numero 16, che, apparso per la prima volta in tedesco nel 1968 quale voce del terzo supplemento al Lexikon für Theologie und Kirche (328-331), vede l’allora professore di Dogmatica affermare, sulla base del concetto newmaniano di coscienza, che «al di sopra del papa, come espressione della pretesa vincolante dell’autorità ecclesiastica, resta comunque la coscienza di ciascuno, che deve essere obbedita prima di ogni altra cosa, se necessario anche contro le richieste dell’autorità ecclesiastica. L’enfasi sull’individuo, a cui la coscienza si fa innanzi come supremo e ultimo tribunale, e che in ultima istanza è al di là di ogni pretesa da parte di gruppi sociali, compresa la Chiesa ufficiale, stabilisce inoltre un principio che si oppone al crescente totalitarismo e che distingue la vera obbedienza ecclesiale da una tale pretesa totalitaria». Con queste parole, osserva Gamberini, Joseph Ratzinger sottolineava dunque «la preminenza della coscienza» e a tale principio si sarebbe rifatto, quasi includendolo, nella famosa Dichiarazione dell’11 febbraio 2013. Facendo «un passo indietro e dimettendosi dal ministero petrino, Benedetto XVI disse infatti di farlo in obbedienza alla sua coscienza. Pur in continuità con la personale esperienza teologica, il suo è stato un gesto rivoluzionario, che  ha costituito una grande svolta per la Chiesa: nelle dimissioni, infatti, Papa Benedetto ha fatto emergere, più che altrove, la sua grande fedeltà creatrice disposta a mettere in questione anche prassi sacrosante della Chiesa cattolica».

Ma per Gamberini il progressivo prevalere del principio dell’autorità ecclesiastica nella successiva esperienza teologica di Ratzinger si sarebbe lentamente imposto a scapito di quello della preminenza della coscienza, «presente, come accennato, nel suo pensiero e certamente espresso negli anni ’60 e ’70 ». In quest’assolutizzazione dell’autorità e del primato petrino risiede per il teologo gesuita «la dimensione negativa di Benedetto XVI». Una prima estrinsecazione nell’«affermazione della continuità tra Vaticano I e Vaticano II, dove di fatto quest’ultimo perde la caratteristica di fedeltà creativa e d’impulso al rinnovamento della Chiesa» e nel correlato discorso del 22 dicembre 2005, il primo da pontefice «alla Curia romana, dov’è evidente la volontà d’annacquare l’interpretazione rinnovatrice del Vaticano II. Questa dimensione frenante si è maggiormente rivelata nel 2006 col celebre discorso di Ratisbona e poi successivamente rinnovata nel 2007 col motu proprio Summorum Pontificum con cui Papa Benedetto cercò di concedere qualcosa ai tradizionalisti permettendo l’uso del rito antico secondo il messale del 1962 di Giovanni XXIII. E poi, ancora, nel 2009 con la costituzione apostolica Anglicanorum coetibus, istituente ordinariati personali per gli anglicani desiderosi d’entrare nella piena comunione con la Chiesa cattolica. Insomma, una serie di tentativi di voler frenare o dare una svolta restauratrice preconciliare», che s’imperniano intorno al principio dell’autorità ecclesiastica. 

È questo il motore di tutto, «soprattutto da un punto di vista liturgico», in cui però paradossalmente ritorna «l’enfant terrible della coscienza individuale di Ratzinger. Il motivo per cui si concede la celebrazione del rito antico è appunto la scelta individuale. Alcuni fedeli si riuniscono insieme in una parrocchia e, anche se il Summorum Pontificum precisa che deve trattarsi di “gruppo stabilmente esistente”, possono seguire il loro gusto personale: si perde così il criterio dell’ecclesialità diocesano-episcopale, ritornando a un principio individuale della coscienza che decide quale rito adottare». Insomma, in Benedetto XVI «lo spirito innovativo, creatore, postmoderno, dominato dall’enfant terrible della coscienza individuale, è coesistito con quello premoderno dell’autoritarismo, che ha cercato di dare al Vaticano II un’interpretazione restauratrice. Un’anima, la sua, che possiamo definire dialettica e in tensione tra due poli, l’uno e altro ripresentatisi anche durante gli anni di pontificato».

Differente l’approccio a Benedetto XVI da parte del servita Salvatore Maria Perrella, preside dei mariologi italiani e anche lui autore di numerose importanti pubblicazioni. Già ordinario di Dogmatica e Mariologia presso la Pontificia Facoltà Teologica Marianum e preside per due mandati del medesimo ateneo romano, ha goduto dell’aperta stima di Joseph Ratzinger, che, come cardinale prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, lo volle nel 1996 tra i 12 esperti componenti la Commissione vaticana internazionale sulla Corredenzione mariana e, poi come pontefice, lo scelse nel 2010 quale perito teologo della Commissione vaticana Internazionale su Medjugorje. Anche per lui, in ogni caso, «la questione liturgica è il punto debole di Benedetto XVI con quel rispolvero d’insegne secondarie, esprimenti una sorpassata visione trionfalistica del vescovo di Roma. Nell’uso dei paramenti e, più in generale, nel modo di presentarsi il Ratzinger cardinale non è il Ratzinger papa: basti pensare alle tante foto di sue celebrazioni in casula o di lui che, da prefetto, cammina con basco sulla testa, una semplice croce pettorale e l’immancabile borsa da lavoro. Insomma, quello che lui ha manifestato, possiamo dire, di retrò nel suo pontificato, non c’era in precedenza. È chiaro che ha voluto assolutamente difendere la Tradizione, compresa quella liturgica, anche se superata». 

Un altro dei «limiti di Benedetto XVI, tra i più evidenti, è stata la mancanza di fortuna coi collaboratori, dovuta, a mio parere, a deformazione professionale. Egli non ha mai cessato, infatti, d’essere il professor Ratzinger, vedendo sempre gli altri come discepoli e non sapendo – o forse non volendo, ma questo non lo so – discernere in merito, anche in ragione della sua grande timidezza e signorilità d’animo». Circa poi la visione di fatto impaurita della contemporaneità, la martellante condanna del relativismo quale origine di tutti i mali presenti, la valutazione dell’attuale collasso morale e del dilagare della pedofilia quale conseguenza del ’68 così come espressa negli “appunti” apparsi nel 2019 sul mensile bavarese Klerusblatt, Perrella ne ritrova i motivi essenziali «negli anni successivi al Vaticano II. Ratzinger ha certamente sofferto e non poco, aspettandosi, come tanti, una ripresa del cattolicesimo dopo un concilio, così faticoso, così oneroso, ma anche così coraggioso al limite dell’imprudenza teologica e prospettica: lui ne è rimasto molto deluso e impaurito. Nondimeno ha sofferto per una lettura politichese, mediatica, sociologica del Vaticano II, cui ha reagito affermando che non è il superconcilio distruttore del passato ma in continuità con la dimensione dinamica e creativa della Tradizione». Certo, quel suo attardarsi sulla contrapposizione tra «ermeneutica della continuità ed ermeneutica della discontinuità, ritenendo unicamente lecita l’una e condannando l’altra, non è stato del tutto felice. D’altra parte, non sempre il teologo, anche grande, sa interpretare la storia e leggere i segni dei tempi. Ma è una colpa questa? Come ogni persona in generale e come ogni pontefice romano in particolare, Ratzinger ha avuto quindi i suoi comprensibili limiti e una sua specifica sensibilità. Una tale consapevolezza, in ogni caso, non mi hai portato a mettere in discussione la di lui sanità mentale, morale, magisteriale».

Una cosa, dunque, è la personale valutazione sulle cause di fenomeni passati o contemporanei, che può essere anche infondata o non del tutto pertinente, un’altra è l’azione concreta nell’eradicazione di quanto resta o è negativo. Il teologo servita sottolinea come, ad esempio, «per quanto riguarda il grande  problema della pedofilia, che per molto tempo la Chiesa cattolica ha fatto finta di non vedere e che esiste da ben prima del Concilio», sia stato proprio Benedetto XVI «il primo a dare mazzate nel merito e a puntare il dito sul tipo di formazione alla vita religiosa e alla vita sacerdotale, impartita in conventi e seminari. Ma quello della formazione è un aspetto richiamante la questione dell’approccio alla corporeità, che è stato sempre, a partire dall’ellenismo, uno dei grandi problemi irrisolti e che s’è poi rafforzato quasi parossisticamente nel cristianesimo, per cui l’unico peccato da punire era considerato fin quasi ai nostri giorni il contra sextum». Nell’opera di contrasto agli abusi su minori e, più in generale, di pulizia nella Chiesa, a Benedetto XVI «è forse mancata alla fine la forza d’andare avanti. Dipinto in modo negativo dai media, che l’hanno raffigurato come il carabiniere, il prefetto della fede, l’avvocato d’ufficio della Tradizione, e non compreso pertanto da larga parte della pubblica opinione, si è forse dimesso perché ha visto che non ne poteva più. La sua grande sofferenza, in ultima analisi, è stata quella che già fu di Pio XII e Paolo VI: la solitudine».

Eppure, secondo il teologo servita, «Benedetto XVI sarà ricordato in futuro come un grande, per aver saputo armonizzare Logos e Pathos nel suo pensiero e nella sua produzione, per aver insegnato, in ultima analisi, che la ragione non rifiuta mai l’amore: non a caso ragione e amore sono i due termini che più si trovano, in maniera quasi ossessiva, nei suoi documenti. Personalmente reputo Benedetto XVI un grande pontefice romano. E ci tengo a sottolineare con forza il carattere di romanità. La sua grandezza emerge anche paradossalmente dalla difficoltà, data l’empatia che c’era tra di lui e Giovanni Paolo II, di seguire come successore a un pontefice mediatico, politico, mistico. Ratzinger per l’enorme timidezza caratteriale non era e non fu mai una figura mediatica». 

Inoltre, continua Perrella, «era culturalmente un signor teologo. Lo si vede nel suo magistero di vescovo di Roma. Basti solo pensare ad alcuni testi, che ne dicono la grandezza, la profondità di pensiero, la fedeltà alla Traditio Ecclesiae. Mi riferisco in particolare alle tre encicliche Deus caritas est, Spe salvi, Caritas in veritate, che sono commenti alle virtù teologali fatte da un uomo di fede, fatte da un grande teologo, fatte da un pontefice romano che sente tale responsabilità. Pur essendo  vissuto in un tempo di fragilità, liquidità, sconnessione, ateismo, Papa Benedetto non s’è mai importato dei conseguenti attacchi. L’ha potuto fare perché era un uomo libero, non appartenente né mentalmente né diplomaticamente al mondo della Curia vaticana: lui era un corpo estraneo al Vaticano. Questo l’ha portato a non avere mai paura di dire quel che pensava, pur facendolo – altro tratto caratteristico della sua personalità – con grande eleganza: sono lì a testimoniarlo gli scritti dalla grande pudicizia formale, teologica, pastorale. Ed è con senso di grata stima che voglio oggi ribadirlo quale fedele, sacerdote, teologo».

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