Diritto alla camminabilità L’inaccettabile vulnerabilità dei pedoni nelle “autocentriche” città italiane

I nostri centri urbani sono figli della motorizzazione di massa, che durante il boom economico consegnò buona parte dello spazio pubblico alle auto. Ancora oggi, chi si sposta a piedi rischia la vita e la tranquillità. Tra larghezza dei marciapiedi, tempi di attesa ai semafori e zone pedonali, ecco come invertire la rotta

LaPresse

Nelle città italiane, ciclisti e pedoni devono avere mille occhi e riflessi degni di un campione di judo. Oggi ci soffermeremo sulla seconda categoria, quella dei camminatori urbani. I marciapiedi delle zone centrali sono spesso stretti e conseguentemente affollati, e nelle ore di punta – per evitare scontri non piacevoli – a volte siamo obbligati a fare continui slalom tra persone. Sugli stessi marciapiedi, è probabile che ci sia qualche auto, motorino o furgone a ostacolare il passaggio di chi sceglie di spostarsi usando gambe e piedi. E allora, in quel caso, non resta che abbandonare il nostro spazio predisposto e fare qualche passo ai margini della carreggiata.  

Poi c’è il capitolo degli attraversamenti pedonali: le strisce – quantomeno in Italia – non sono garanzia di protezione e rispetto della precedenza. Stando ai dati dell’Osservatorio Asaps, nel 2022 sono morti investiti 307 pedoni: nel 2021 erano 271 e nel 2020 240. Quella dello scorso anno, oltretutto, è una stima preliminare che non tiene conto dei decessi avvenuti in ospedale a distanza di tempo dall’incidente. Il numero potrebbe essere molto più alto. 

E ancora: soste infinite ai semafori anche quando le carreggiate sono deserte, barriere architettoniche che rendono difficile, se non impossibile, il passaggio di persone con disabilità o con difficoltà motorie. I casi più eclatanti, per non dire surreali, sono quelli delle automobili parcheggiate che, per rientrare in strada, percorrono decine di metri sul marciapiede. 

Insomma, muoversi a piedi nelle città italiane non è facile e può rivelarsi pericoloso. È un problema di cui si parla poco, perché i dibattiti sulla mobilità urbana si schiacciano spesso su argomenti marginali e che non vanno alla radice della questione: i nostri centri urbani non sono stati progettati per le persone. E il “diritto alla camminabilità” è costantemente minacciato. 

«Venti o trent’anni fa, quando venivano elaborati i piani di trasporto nelle città, quella dello spostamento a piedi era una variabile che non veniva minimamente considerata. Milano è l’emblema di questo modo di pensare. Parliamo di una città costruita prima degli anni Sessanta, dunque prima della motorizzazione di massa. Milano, quindi, non si è sviluppata attorno all’auto privata, ma nel giro di poco tempo è stata travolta dall’arrivo di questi mezzi. Mezzi che, di fatto, hanno stravolto e modificato una città che aveva otto corsie per le auto in piazza Duomo», racconta a Linkiesta Federico Parolotto, architetto urbanista e Ceo di MIC-HUB, società di consulenza in pianificazione dei trasporti e della mobilità. 

Il concetto di camminabilità è strettamente legato alla qualità della vita all’interno del contesto urbano. Una città a misura di pedone non è solo quella “dei 15 minuti”, dove tutti i servizi e le attività essenziali sono facilmente e rapidamente raggiungibili camminando o pedalando. La camminabilità di una città indica anche la qualità dei percorsi a piedi e il livello di sicurezza che abbiamo – e percepiamo – mentre ci spostiamo senza l’ausilio di qualsiasi mezzo. 

Ciò che il concetto di camminabilità consente di rilevare, recita lo studio “Camminabilità e capacità urbane: valutazione e supporto alla decisione e alla pianificazione urbanistica”, «è la qualità dell’accessibilità, come e quanto l’ambiente urbano è in grado di favorire il camminare e di offrirsi come piattaforma per una vita quotidiana basata sulla mobilità pedonale». Una città a misura di pedone deve avere percorsi piacevoli, sicuri, ben mantenuti, ricchi di attività e non subordinati al traffico automobilistico. «La presenza e la distribuzione delle dotazioni urbane», continua lo studio, «non sono requisiti sufficienti per definire la qualità della vita urbana».

Secondo i dati del 2019 del rapporto Ecosistema urbano di Legambiente, ogni italiano ha in media 0,47 metri quadrati di aree pedonali a disposizione: troppo poco. Venezia, Verbania, Cremona, Firenze, Cosenza, Pescara e Lucca sono le uniche ad avere più di un metro quadrato di area pedonale pro-capite. Stando a uno studio dell’Istituto per la politica dei trasporti e dello sviluppo (Itdp) di New York, le città più camminabili al mondo sono Parigi, Londra, Bogotà e Hong Kong

Ben vengano le piazze aperte, le zone pedonali e la prossimità dei servizi, ma in questo periodo storico bisogna fare un passo in più per migliorare la camminabilità di una città. Secondo Federico Parolotto, da poco in libreria con “Muoversi in uno spazio stretto – Verso una nuova mobilità” (Quodlibet Studio), è essenziale intervenire su due livelli: l’ampiezza dei marciapiedi e il ribilanciamento delle fasi semaforiche. Ovviamente, la presenza di scivoli pedonali è una condizione necessaria e sufficiente per rendere una città camminabile, civile e democratica. In più, «non bisogna dimenticare il tema della forestazione, considerando che avremo sempre più isole di calore», dice l’esperto.  

Iniziamo dai semafori, che, come sottolinea Parolotto, «in Italia sono tradizionalmente impostati in base alle esigenze dell’automobile, con persone che attendono ferme anche quando la strada risulta vuota. I tempi di attraversamento nelle fasi semaforiche devono essere sensati e calibrati a seconda della situazione». 

In Italia abbiamo un sistema semaforico “autocentrico”, che spesso incentiva i mezzi a motore ad accelerare: «Pensa all’onda verde sulla circonvallazione dei Navigli, che è attorno ai cinquanta chilometri orari. Bisogna fare un lavoro potente sulle fasi semaforiche, in modo tale da avere onde verdi sotto i trenta chilometri orari», aggiunge l’architetto. Le fasi di verde, dunque, devono favorire i cittadini che si spostano a piedi. 

Secondo Parolotto si potrebbe puntare, come stanno facendo ad esempio a Londra, su «sistemi di telecamere che registrano i tempi d’attesa ai semafori». In questo modo, le amministrazioni comunali avrebbero i dati e le informazioni sufficienti per intervenire in modo mirato: se ci sono tante persone che aspettano e la strada è vuota, la fase semaforica può essere ribilanciata al fine di garantire «che la disposizione del verde sia più corretta per chi va a piedi». 

La già accennata questione dei marciapiedi è altrettanto importante e delicata, anche perché impatta sulla qualità della vita delle persone anziane e con disabilità. Per legge, in Italia, queste lingue di cemento devono avere una larghezza minima di 1,50 metri, con tratti di 1,80 metri nelle zone più trafficate. La larghezza deve toccare i due metri nel caso in cui ci fossero ostacoli come chioschi o edicole. Sappiamo bene che in tanti, troppi casi questa norma non viene minimamente rispettata. 

Il motivo è sempre lo stesso: le città italiane si sono adattate troppo rapidamente alla diffusione dell’automobile privata, che negli anni della motorizzazione di massa si è mangiata la maggior parte del suolo pubblico. Nel 2023, è giunta l’ora che questo spazio venga riequilibrato. Per allargare i marciapiedi, secondo Federico Parolotto è fondamentale «tariffare la sosta ai residenti: in molte città italiane tu puoi parcheggiare quattro auto con il bollino dei residenti e lasciarle lì a tempo indefinito, praticamente gratis, su uno spazio pubblico». 

È questa l’eredità di uno sviluppo urbano che ha visto l’automobile come protagonista indiscussa: «Tariffare la sosta porterebbe a un cambio di approccio e libererebbe spazio, consentendo l’allargamento dei marciapiedi. Ma per allargarli bisogna riconquistare spazio. Adesso sta già iniziando un’inversione di tendenza. Tra venti o trent’anni, si spera, ci guarderemo indietro e diremo: “Ma veramente vivevamo in queste condizioni?». 

Le politiche più restrittive sui parcheggi dovrebbero far parte del quadro di interventi delle cosiddette “Città 30”, un modello che non si riferisce solamente all’estensione del limite dei trenta chilometri orari in tutta l’area urbana. “Città 30” significa adattare l’intera città a una diversa concezione di velocità, in grado di favorire gli spostamenti lenti e sostenibili (a piedi e in bicicletta). 

Una misura di questo tipo deve essere accompagnata da due tipi di interventi. I primi sono quelli che disincentivano l’uso del mezzo inquinante privato: le Ztl, le zone a basse emissioni, la riduzione dei parcheggi di superficie e l’aumento delle soste a pagamento. I secondi, invece, sono di tipo urbanistico. E tra questi figura anche l’ampliamento dei marciapiedi e un restringimento delle carreggiate.

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