La crisi del latte ha origine nel 2016, anno in cui la produzione era stata eccessiva e il prezzo, di conseguenza, era crollato. Nel 2017 il prezzo del latte era sceso fino a 60 centesimi. Successivamente è stato adottato qualche provvedimento minimo, come l’acquisto di pecorino romano per gli indigenti, senza che i problemi strutturali del settore fossero risolti alla radice. Il 2018 è stato, invece, un anno di transizione. Nel 2019 ci sono stati gli strascichi della crisi scoppiata nel 2016. Neanche dopo il latte versato per strada è cambiato un granché.
Gli allevatori hanno provato così a operare il classico riaggiusto: la produzione di latte veniva ridotta, si cercava di alimentare gli animali in modo più naturale possibile, si provava a contenere i costi e, automaticamente, la produzione di latte era stata minore. Nel 2020 è arrivata la malattia di Covid, il cui impatto tutto sommato è stato più che positivo per gli allevatori. Durante il periodo dell’emergenza sanitaria il prodotto più richiesto dalla grande distribuzione è stato il formaggio a lunga stagionatura e a lunga scadenza, proprio come il pecorino romano, prodotto di punta del settore ovicaprino. Questa congiuntura ha portato a un aumento del prezzo del latte e del pecorino.
Sembra strano ma la crisi del 2019 è stata risolta dal nuovo coronavirus. Il prezzo del latte è salito perché è aumentata la domanda. Dunque, il 2020 e il 2021 sono state annate buone per i pastori. Attualmente, però, i costi di produzione stanno aumentando anche a causa della siccità e del surriscaldamento globale. La guerra in Ucraina ha complicato il quadro, causando un forte aumento del costo dei mangimi, dei concimi, del foraggio, dell’energia, spese necessarie perché tutte le aziende hanno il refrigeratore, la mungitrice meccanica e devono fare ricorso al gasolio.
Il prezzo del latte continua a salire, anche a causa dell’inflazione, rendendo il prodotto meno accessibile ai consumatori. Battista Cualbu, allevatore e presidente di Coldiretti Sardegna e di Associazione Nazionale Pastorizia (Assonapa), precisa: «Abbiamo registrato dei prezzi di vendita record rispetto agli altri anni. Mi riferisco alle carni, sia di agnelli sia di pecore a fine carriera, e in particolare al latte. Il pecorino romano, che per oltre il 95% viene prodotto in Sardegna, a dicembre è stato venduto dagli allevatori alle cooperative a 14,30 euro al chilogrammo, un prezzo impensabile fino a 3 anni fa, quando veniva pagato appena 4 euro. Il prezzo del latte varia mensilmente, ma quest’anno la campagna è iniziata molto bene. A dicembre il prezzo del latte, ovvero la cifra che le cooperative pagano agli allevatori per un litro, è arrivato a toccare 1,40 euro, qualcosa che non si era mai verificato».
Un prezzo così alto, in teoria, dovrebbe favorire i pastori. Ma la situazione attuale non può essere osservata con le solite lenti perché non ha precedenti. Il pecorino romano tira e il latte è pagato bene, ma contestualmente i costi fissi stanno aumentando. E non si sa per quanto si potrà andare avanti così. «I costi stanno mangiando parte dei ricavi. – spiega Domenica Farinella, docente dell’Università di Messina – Gli allevatori stanno guadagnando molto dall’aumento del costo del latte ma stanno anche sostenendo più spese e dunque non stanno guadagnando quanto avrebbero potuto guadagnare in condizioni normali con un prezzo del latte così alto. Ma la vera questione è un’altra: fino a quando questo meccanismo potrà reggere? Nell’ultimo periodo le crisi sono state più frequenti, ogni due anni se guardiamo agli avvenimenti più recenti. Il rischio è generare una nuova crisi, magari più grave, dalla quale sarà ancora più difficile uscire».
I pastori, in particolare quelli del comparto ovicaprino, inoltre, sono in mobilitazione perché ritengono di essere stati depredati di risorse e di non essere stati adeguatamente inseriti nelle politiche di programmazione e sviluppo a livello territoriale e nazionale.
Anche su questo tema Battista Cualbu prova a fare chiarezza: «Affermare in maniera generica che stiamo perdendo denaro non è esatto. Paragonando la nuova Politica agricola comune o Pac, che entrerà in vigore dal primo gennaio 2023, a quella che abbiamo attualmente, le aziende che guadagnano risultano essere di più rispetto a quelle che non traggono vantaggi. Nel primo pilastro della Pac è previsto un finanziamento di base, una fetta importante, che è stato ridotto in tutta Italia di quasi il 50%. Tuttavia, gli eco-schemi permettono agli allevatori di ottenere dei finanziamenti su misura. Al sovvenzionamento di base vanno aggiunte dunque altre voci, che in alcuni casi permettono anche di aumentare il premio finale. Noi allevatori ci siamo sempre lamentati perché le integrazioni al reddito venivano garantite a chi aveva ereditato dei terreni ma non li coltivava. Adesso, finalmente, si tende a premiare chi pratica pascolamento. La restante metà del premio previsto dalla nuova Pac è condizionata ad alcuni requisiti. Con la nuova programmazione, il pagamento di base viene dimezzato ma possiamo avere diritto al premio per la riduzione dell’uso degli antibiotici. I sostegni accoppiati, inoltre, sono aumentati dal 12,5 al 15%. È vero, come lamentano i pastori, che siamo stati esclusi dall’eco-schema 1 livello 2 sul pascolamento, ma abbiamo la misura sull’antibiotico che prima non c’era. Se ci avessero incluso nell’eco-schema 1 livello 2, non avremmo potuto cumulare questo finanziamento con quello del benessere animale. Considerando anche l’eco-schema 4 sugli erbai, una pratica che facciamo da sempre, rispetto alla precedente programmazione l’allevatore prende addirittura qualcosa in più, purché non si utilizzino i diserbanti, più comuni però nei granai».
La Politica agricola comune è infatti costituita da due tipologie di intervento finanziate: i sostegni diretti al reddito e lo sviluppo rurale, anche detti primo e secondo pilastro. I sostegni accoppiati sono forme di integrazione al reddito e vengono riconosciuti se si hanno agnelle da rimonta o se si macellano agnelli. L’imprenditore agricolo che si adatta agli eco-schemi può avere accesso ai finanziamenti previsti dal primo pilastro della nuova Pac.
Secondo i dati del Crea, l’ente di ricerca italiano dedicato alle filiere agroalimentari, nella parte del secondo pilastro, quello degli investimenti strutturali, sono stati allocati 604 milioni di euro per il benessere animale. Sono finanziamenti per gli allevamenti a vario livello, finalizzati a migliorarli e a renderli più sostenibili. Di questi 604 milioni, 155 sono stati allocati dalla Sardegna, la regione che ha stanziato più fondi in questo senso, tutti destinati agli allevamenti ovicaprini.
Con la nuova Pac, che entrerà in vigore dal primo gennaio 2023, è l’allevatore che deve attivarsi per poter accedere alle integrazioni al reddito previste e sembra ormai terminata l’epoca dei finanziamenti a pioggia. La zootecnia continua a essere finanziata, ma a determinate condizioni. Bisogna rendere più sostenibili e più innovativi gli allevamenti.
Quindi, per citare degli esempi, viene richiesto che gli allevamenti siano più estensivi; che venga appunto ridotto l’uso di antibiotici responsabili della farmacoresistenza, la quale a sua volta comporta l’impiego di farmaci veterinari sempre più inquinanti. Ma si chiede anche che venga combattuto l’inquinamento da nitrati. Il latte bovino, d’altra parte, riceve più finanziamenti perché questi sono parametrati sul numero di allevamenti e sul numero di capi che ci sono in Italia, molti di più rispetto al settore ovicaprino.
La Commissione Europea continua a finanziare tanto l’agricoltura perché persiste uno squilibrio economico e sociale dovuto a un malfunzionamento di sistema. I redditi degli imprenditori in questo settore non sono paragonabili agli altri redditi. Ridurre questo squilibrio è sempre stato l’obiettivo della Pac, un obiettivo, purtroppo, non ancora raggiunto nonostante gli sforzi profusi sino a oggi.