Simone Padoan ha rappresentato la forte preoccupazione di pizzaioli e chef con una singola foto: quella dell’importo della sua bolletta della luce. Il rincaro dell’energia fa paura alla ristorazione. Ma se questo settore è un sorvegliato speciale dall’inizio della pandemia, anche altri imprenditori stanno cercando di far quadrare i conti senza successo. Tra questi ci sono gli allevatori e le aziende di zootecnia.
Il punto sugli allevamenti
«Nel 1980 l’Italia contava 80.000 allevamenti di bovini adulti da latte. Oggi sono circa 26.000». Il raggelante delta tra le due cifre lo riferisce Fortunato Trezzi, titolare dell’Azienda Agricola Fratelli Trezzi di Alzate Brianza. A questi vanno aggiunti i circa 100.000 allevamenti di bovini da carne. Senza prendere in considerazione quelli dedicati a suini, ovini e bufale, si disegna un parco imprese di circa 126.000 unità, per un totale di circa 4 milioni di animali da alimentare, accudire e trasformare in carne o di cui lavorare il latte (dati: Banca dati delle anagrafi zootecniche, 31 dicembre 2019).
La scelta della destinazione d’uso dell’animale è importante nel racconto dei conti delle stalle che non tornano più. Infatti, «allevare bovini da latte è più costoso rispetto al fare lo stesso con quelli da carne perché, oltre al costo alimentare (seppur paragonabile), ci sono costi energetici legati a mungitura, preparazione di foraggi e stoccaggio del latte, che incidono in maniera marcata sui costi. Vanno aggiunti anche quelli legati al personale e alle semine dei terreni, se si ha a disposizione lo spazio per coltivare il cibo da destinare agli animali». Sommati, sono aumenti preoccupanti.
Il peso dei mangimi
Per chi non ha terreni da coltivare e adibire al pascolo, l’unica opzione alimentare disponibile resta il mangime. Anche questo segmento non sembra passarsela bene. «A partire dalla fine del 2020 si è assistito a un progressivo aumento del costo di tutte le principali materie prime, tra le quali anche tutte quelle destinate all’alimentazione degli animali – spiega Lea Pallaroni, Segretario Generale di Assalzoo – Questo fenomeno è proseguito con un andamento crescente per tutto il 2021 con incrementi molto forti che, solo per fare un esempio, per le due materie prime strategiche per la produzione di mangimi come il mais e la soia ha portato a rincari che hanno raggiunto rispettivamente il + 65% e il + 60% per la seconda. Questo forte aumento ha avuto un effetto domino su tutte le altre materie prime impiegate nella produzione di mangimi».
Del grano abbiamo già parlato qui e le cose non sembrano migliorate nemmeno per orzo, grano tenero, sorgo e altri cereali minori. Sono aumentati anche i costi delle fonti proteiche (farina di girasole, favino, pisello proteico, erba medica, farina di pesce), ma anche dei sottoprodotti come la crusca, le polpe di barbabietola: tutti prodotti le cui quotazioni di mercato sono cresciute tra il 60% e il 90%, con picchi anche superiori. Dato che questo è il punto di partenza per l’alimentazione degli animali che a vario titolo concorrono alla nostra alimentazione, non c’è di che stare allegri: se i costi di produzione aumentano, anche il prezzo di carne, latte e derivati aumenta.
I costi che schiacciano la filiera
Che siano industrie mangimistiche o allevamenti o industrie di trasformazione, il leitmotiv sugli aumenti batte sempre sulle stesse note. A pesare sui costi dei mangimi ci sono gli effetti della crisi pandemica; una crescita molto forte della domanda di materie prime alimentari dei mercati asiatici, primo fra tutti quello cinese; un andamento deludente dei raccolti a causa di avverse condizioni meteo climatiche e la concomitante riduzione delle scorte a livello mondiale.
«A ciò deve aggiungersi che la pandemia, tra aperture e chiusure, ha posto le basi per una repentina e forte crescita della domanda di mangime – spiega Pallaroni – che ha creato tensioni a tutti i livelli, non solo sui prezzi delle materie prime ma anche sul costo dei trasporti (i noli sono più che raddoppiati), e sui costi dell’energia, con prezzi ormai fuori controllo per l’elettricità e ancor più per il gas: una voce di costo importante per il nostro settore di industria».
Ecco perché le infrastrutture per ottimizzare il trasporto su gomma e rotaia del mangime sono fondamentali: per un settore capace di movimentare 30 milioni di tonnellate di merce ogni anno, i fondi del Pnrr potrebbero essere cruciali in termini di competitività nazionale.
Per ora le aziende mangimistiche si sono trovate a dover contenere un aumento dei costi, mediando gli aumenti con contratti a lungo termine stipulati prima della crisi, ma che oggi, con il perdurare di questa grave situazione, il settore mangimistico non è più in grado di contrastare. Quindi il prezzo dei mangimi è andato su e le previsioni per tutto il primo semestre dell’anno non sono affatto confortanti.
All’aumento dei prezzi dei mangimi – pari al 70% dei costi di produzione per un allevamento da latte – si devono sommare quelli delle bollette di energia elettrica. A soffrirne maggiormente sono gli allevamenti avicoli e di bovini da latte: lì ci sono mungitrici e impianti di refrigerazione, che fanno girare il contatore per tutto il giorno. C’è chi in tempi non sospetti si è dato da fare con pannelli fotovoltaici e impianti per la produzione di biogas, ma anche queste accortezze oggi mostrano la corda perché ancora insufficienti a coprire il fabbisogno energetico di un’intera azienda.
Inoltre, in Italia il mondo produttivo soffre anche per costi del lavoro e pressione fiscale, più elevati rispetto a quelli di molti dei nostri principali competitors internazionali. Poi c’è la burocrazia, che immobilizza le iniziative imprenditoriali e l’innovazione. A questo si aggiunge lo scarso favore riservato alla ricerca pubblica. «Sono fattori che compromettono tutte le attività produttive – sottolinea Pallaroni – e anche il settore dell’allevamento è costretto a dover far quadrare un bilancio che purtroppo è spesso in rosso e che compromette la possibilità di fare quegli investimenti necessari a fare crescere le aziende, renderle più efficienti e garantire un sistema di produzione in grado di assicurare un reddito sufficiente».
Produrre sottocosto
Ma se l’aumento de prezzo del grano ha determinato una corsa al rialzo per tutto, scaricato in gran parte sui consumatori, il mercato del latte sembra preda di uno stallo alla messicana. Non cresce il prezzo della materia prima, ma nemmeno quello della carne. In compenso si produce sottocosto. «Se il prezzo medio di un litro di latte è di 39 centesimi, per farlo occorrono 50 centesimi», spiega Giorgio Apostoli, Ufficio Zootecnico Coldiretti. Non esiste un prezzo nazionale per il latte. Ogni industria fa il suo in base alla qualità del prodotto, data dalla quantità di grassi e proteine presenti, fondamentali per la caseificazione. Basti pensare che il burro è aumentato del 90% (dati: Coldiretti). Per questo è importante che gli animali siano ben nutriti, con i (più costosi) mangimi giusti, altrimenti si va (ancora di più) in perdita. Ci sono contratti, come quello tra i produttori e il consorzio Parmigiano Reggiano, che assicurano agli allevatori 60 centesimi al litro. Per gli altri le cifre oscillano, mentre le bollette di gas e luce quadruplicano. Molti allevatori sono anche soggetti giuridici legati ad aziende agricole: per questo motivo ricevono delle integrazioni comunitarie solo sul suolo coltivato per l’alimentazione degli animali. Per il bestiame o il latte prodotto non viene dato alcun contributo. «In Italia è prevista solo una piccola integrazione per ogni vacca allevata, soprattutto in montagna», ricorda Apostoli.
L’accordo sul latte
Sul fronte della filiera lattiero-casearia nazionale, che esprime un valore di oltre 16 miliardi di euro e occupa oltre 100.000 persone, qualcosa si sta muovendo. Per fronteggiare l’emergenza latte, è stato messo a punto il “Protocollo per un’intesa di filiera per la salvaguardia degli allevamenti italiane”, sottoscritto a febbraio 2022 tra organizzazioni agricole, l’Alleanza delle cooperative italiane del settore agroalimentare, Assolatte e Grande Distribuzione Organizzata. L’iniziativa ha preso le mosse da una riunione tenutasi il 30 settembre 2021 presso il Ministero delle Politiche Agricole ed è stata sottoscritta da Coldiretti, Confagricoltura, Cia, Copagri, Alleanza delle Cooperative Italiane settore agroalimentare, Assolatte, Federdistribuzione, Ancd Conad, Ancc Coop, Ue Coop, Assalzoo, Agrocepi, Unione Coltivatori Italiani.
L’obiettivo condiviso è quello di riconoscere un premio chiamato “emergenza stalle” così ripartito: la Gdo si impegna a versare alle imprese della trasformazione lattiero-casearia fino a 3 centesimi di euro al litro di latte utilizzato per i prodotti della filiera (yogurt, latte, formaggi freschi e semi stagionati, tutti a latte 100% italiano), fino a una soglia massima di 0,41 centesimi Iva esclusa. Dal canto suo, l’industria si impegna a corrispondere fino a 1 centesimo per coprire il gap fino al raggiungimento della cifra massima.
In pratica, se un’azienda vende alla Gdo 10 chili di stracchino, in base a una tabella viene stabilito il fabbisogno produttivo a monte: 8 litri latte per chilo di stracchino. Quindi verrà applicato un aumento di 4 centesimi per litro, per un totale di 24 centesimi in più, trasferiti all’allevatore dall’industria. Nei contratti che regolano i rapporti commerciali tra industria e GDO, queste cifre aggiuntive devono essere rese evidenti attraverso la dicitura “Premio emergenza stalle”.
Il nodo cruciale dell’accordo è che questi soldi devono arrivare alla stalla. L’accordo dovrebbe avere validità sino al 31 marzo 2022. «Al momento – spiega Trezzi – nessuno ha usufruito di questa misura: le aziende si sono sobbarcate tout court i costi aziendali».
L’industria “schiacciata”
Ma, nonostante modifiche e nuovi incontri, al momento il protocollo è applicato a senso unico. Come afferma Massimo Forino, Direttore Assolatte, «l’industria ha fatto molto di più di quanto si era impegnata a fare. Gli aumenti riconosciuti dagli industriali ai fornitori agricoli non sono stati ancora corrisposti dalla grande distribuzione».
Nell’addendum tecnico, aggiunto negli ultimi giorni, l’industria si è anche impegnata a raccogliere tutto ciò che la Gdo metterà a disposizione, per distribuirlo senza indugio ai produttori. Ma l’industria preme per riversare il peso degli aumenti a valle, cioè sul consumatore attraverso la Gdo. Dal canto suo, quest’ultima si muove con prudenza, per il timore di incidere sull’inflazione del Paese in un momento molto particolare. «Stiamo tutti cercando di fare la nostra parte col massimo senso di responsabilità nei confronti del consumatore. Ma non si può prevedere una crescita industriale, senza pensare a uno sbocco a valle di questi aumenti. L’industria garantisce un prezzo di mercato, che però, ad oggi, non copre i costi. Per questo l’aggiornamento dei listini è necessario: per pagare le bollette», sostiene Forino.
La Gdo: chi pensa ai consumatori?
«L’accordo sull’emergenza latte è un atto inedito: non ci sono mai stati rapporti tra Gdo e allevatori – puntualizza Carlo Buttarelli, Direttore Relazioni di Filiera di Federdistribuzione – Riteniamo il problema reale, ma il nostro è un ruolo di seconda battuta, prima di noi c’è l’industria di trasformazione. Stiamo ridiscutendo i prezzi di molti listini, considerando aumenti anche significativi. Consideriamo giusto tutelare gli allevatori, ma senza dimenticare i consumatori. Ci vuole una maggiore sensibilità sul tema».
Il passaggio di denaro dalla Gdo agli allevatori non è di facile attuazione. È necessaria la mediazione dell’industria, che «deve certificare alla distribuzione i costi che sostiene pagando le stalle. Ma ciò non è ancora avvenuto».
Il prezzo della carne
«Nel periodo maggio-ottobre 2021, i bovini di Razza Piemontese hanno subito perdite per oltre 500 euro a capo, a causa di aumenti dei costi di produzione, chiusura della ristorazione e concorrenza della carne estera – spiega Fabiano Barbisan, Presidente AOP Italia Zootecnica – Se parliamo delle altre tipologie di bestiame, per capirci i ristallati nati in Francia e allevati in Italia, maschi e femmine, solo i costi di alimentazione giornalieri sono aumentati fino ad incider per 120 euro a capo».
C’è stato un aumento del prezzo dei bovini di circa 0,20-0,30 per chilo di peso vivo, conquistati perché c’era poca offerta e la domanda era in aumento. Ma è alla vendita che si fanno i giochi. Al momento non ci sono risposte convincenti: «I macellatori si adeguano, e la parte più debole – l’allevatore – subisce le decisioni dei primi due».
In Italia le organizzazioni di produttori che dovrebbero concentrare l’offerta e determinare il mercato, stanno muovendo i primi passi all’interno dell’AOP Italia Zootecnica (riconosciuta anche dal Mipaaf). Ma il confronto è ancora appannaggio dei grandi gruppi privati, in grado di determinare i prezzi di mercato e poco disponibili a collaborare per una migliore gestione del mercato.
«Su questo fronte il Ministero delle politiche agricole e le Regioni non stanno aiutando gli allevatori poiché alla nostra richiesta di inserire nella nuova Pac 2023-2027 gli “aiuti accoppiati” con priorità all’appartenenza ad Organizzazioni produttori, hanno scelto un basso profilo quasi a voler rispolverare il metodo degli “aiutini a pioggia”.
Lo stesso vale per quanto riguarda l’OCM Carni Bovine, che anche con importi minimi, avrebbe dato linfa vitale alle Organizzazioni Produttori, ma per lasciare “più denari alla burocrazia” s’è preferito accantonarla. Vedremo cosa ne pensa la Commissione europea».
Considerato che importiamo quasi il 48% di carne estera e fatichiamo a valorizzare quel 52% circa di produzione nazionale, i prezzi devono essere più competitivi. «La “carne è tutta rossa”, il consumatore non la distingue». Bisogna lavorare anche su questo. I consumi domestici, anche nel 2021, hanno in buona parte compensato quelli mancati del “fuori casa”, così anche alla distribuzione si è assistito a una maggior presenza di prodotto italiano, venduto a prezzi in tenuta, con diversi spunti al rialzo. Ma il prezzo della carne non ha avuto grandi oscillazioni, poiché i maggiori costi di produzione sono stati sopportati principalmente dagli allevatori. Nel prossimo futuro potrebbe non essere così.
Sguardo al futuro: le prossime tappe del settore zootecnico
Assalzoo si propone di portare avanti un dialogo continuo anche con le altre rappresentanze dalla filiera, non ultimi anche i consumatori, per cercare di risolvere con un approccio integrato le problematiche comuni. Proprio pensando a chi acquista, la Gdo invita l’industria ad abbracciare il suo ruolo di calmieratore. I trasformatori, invece, chiedono maggiori risposte alla distribuzione.
Sul fronte carne, Italzootecnica sta portando avanti il Piano Carni Bovine Nazionale, tra mille difficoltà interne ed esterne al settore. «Il Piano poggia su tre pilastri: il Sistema di qualità nazionale zootecnia con la certificazione della carne con il marchio ombrello del Consorzio Sigillo Italiano (riconosciuto dal Mipaaf), la produzione di ristalli in Italia, con la collaborazione degli allevatori di vacche da latte (per non dipendere dall’estero) e l’operatività dell’Interprofessione. Se gli attori che operano nella filiera del bovino da carne sono disponibili a collaborare, potremo avere tutti gli strumenti per riposizionare a livello economico i nostri allevamenti e dare un futuro agli imprenditori, oltre a produrre buona carne, di alta qualità certificata con la sostenibilità ambientale, sociale ed economica, destinata ai consumatori che, in questi giorni, hanno superato la soglia degli otto miliardi di abitanti del Pianeta.
Il nostro asso nella manica è il marchio ombrello “Consorzio Sigillo Italiano”, per comunicare le produzioni certificate in base al sistema di qualità nazionale zootecnia riconosciuto dal Mipaaf. Se avremo le risorse necessarie per farlo conoscere ai consumatori, sarà per loro più facile riconoscere le produzioni degli allevatori italiani, preferirle e dare un valore aggiunto alla carne bovina di qualità che andranno ad acquistare».
C’è qualcosa che possiamo fare anche noi: consumare prodotti italiani. Mentre in Francia scatta l’obbligo di indicare la provenienza di tutti i tagli di carne serviti nei locali pubblici, gli allevatori italiani chiedono da anni che la misura sia varata anche in Italia. Lo stesso vale anche per latte e formaggi. Per dirla con Apostoli, «bisogna sempre cercare la qualità, dove c’è ovviamente».