Per fortuna non ho mai avuto niente a che fare col giornalismo; almeno, di tutte le paranoie che m’affliggono mentre mi accingo a scrivere ciò che ho per settimane custodito gelosamente nel mio cuoricino, non avrò quella di partecipare al più diffuso genere giornalistico di questo decennio, quello denominato «Ma tu guarda questi scemi».
Dicesi «Ma tu guarda questi scemi» l’articolo in cui un autore – il cui valore professionale è: in anni in cui i giornali erano una cosa seria sarebbe stato messo a compilare le previsioni del tempo – la spara grossissima. Roba tipo: ho visto per la prima volta “Via col vento” e non capisco cosa ci troviate tutti. Oppure: il disco di Achille Lauro è meglio di qualunque cosa mai incisa da Prince.
Il matuguardaquestiscemismo ha una logica impeccabile; Chris Rock direbbe: biafrana. Chris Rock, miglior comico vivente, nel suo spettacolo che a marzo sarà su Netflix dice che siamo così affamati d’indignazione che siamo biafrani dell’indignazione. Quindi: più tu sei disposto a far la figura dello scemo, più io cliccherò.
Gli articoli online, più che al giornalismo, somigliano a Paperissima: certo che sono disposto a scivolare, a fare una figuraccia, persino a rischiare di farmi male, se in cambio arrivano i picchi di share. Quindi: per fortuna io invece faccio letteratura. (Questa è la parte che serve immortalare per allegarla al vostro tweet «quella mitomane di Soncini»).
Il modo più certo per fare dell’efficiente matuguardaquestiscemismo è una classifica. Esiste una classifica, al mondo, su qualsivoglia tipo di prodotto, con cui sia d’accordo qualcuno che non è quello che l’ha compilata? Non riusciamo a metterci d’accordo sulla migliore pizza, figuriamoci sul miglior libro. Tu mi dici il meglio per te, io penso «ma tu guarda questo scemo, lo sanno tutti che il meglio è quello che dico io», e clicco, e giro il link agli amici, e alimento l’indignazione e il tuo successo.
Quando è morto Lucio Dalla, la prima cosa che ho pensato non è stata: non avremo mai più un’altra “Il parco della luna”; non è stata: non sono mai stata a un suo concerto, imbecille che sono; è stata: ora si vergogneranno. La prima cosa cui ho pensato è stata una classifica per cui anni prima m’aveva chiesto di votare Rolling Stone: i cento dischi migliori della storia della musica italiana.
Come tutte le persone sensate, il mio primo disco era il Dalla del 1980, però la classifica finale era una media tra persone perlopiù insensate, e quindi aveva vinto qualcun altro (forse Vasco, vatti a ricordare). Mi pare che Dalla fosse ottavo o giù di lì: ero furibonda vedendo il risultato da vivo, e tutta un «ve l’avevo detto» da morto. Chissà se si sono vergognati, o se hanno pensato: e noi che potevamo saperne che Vasco, con tutto quel che ha fatto per morire giovane, campava più a lungo di Dalla.
Qualche settimana fa l’edizione americana di Rolling Stone ha fatto una classifica delle duecento migliori voci della storia della musica (anzi: cantanti, hanno precisato che si trattava di cantanti e non di voci; chissà con cosa si canta). Come tutte le classifiche, era fatta per farsi dire: ma tu guarda questi scemi.
Tuttavia, poiché viviamo in una strana epoca, che al tempo stesso è nostalgica del passato e feticizza il presente, nessuno s’è scandalizzato per ciò per cui mi sarei scandalizzata io, fossi una che si scandalizza: Frank Sinatra era dieci posti dietro a Beyoncé. Si sono indignati per l’assenza, dai duecento, di Céline Dion. I fan della Dion pare siano andati in redazione a chiedere il riconteggio (quanto tempo libero, che invidia).
E quindi, dopo questo milione di righe di premesse, posso nascondere qua in fondo il mio maguardaquestiscemismo. Avevo resistito mesi al chiacchiericcio su “The Offer”, la serie coi sosia del Bagaglino che racconta le difficoltà incontrate nel riuscire a produrre il primo Padrino. Qualche settimana fa ho ceduto.
La serie è un delirio di casting sbagliato: c’è il pediatra di “Grey’s Anatomy” che fa Marlon Brando, e non credo di dover aggiungere molto. Forse solo una cosa, che però bisogna conoscere la Hollywood degli anni Settanta per capire: Bob Evans – l’uomo più brutto ma più fascinoso dell’epoca – e Ali McGraw – che cinquant’anni dopo è ancora la donna più bella del mondo – sono interpretati da un attore bello e da un’attrice sciapa. Insomma, un mezzo disastro, che però mi ha fatto andare a rivedere non solo i primi due Padrino, che avevo già visto più volte di qualunque altro film, ma anche il terzo, che forse avevo guardato da piccina e poi mai più.
Saprete già quel che si usa dire tra gente che si dà il tono di chi ne capisce: il terzo Padrino è una schifezza, ma il secondo, il secondo è forse l’unico séguito che sia meglio dell’originale. Un’affermazione che mi ha sempre fatto dare delle testate contro il muro: nel secondo Padrino, Robert De Niro fa Marlon Brando da giovane. Chiunque pensi che De Niro sia un degno giovane Brando è evidentemente sordocieco (spero questa frase non venga tacciata d’abilismo: non vorrei diluire le ragioni d’indignazione).
Ora. Guardando il terzo film – di un kitsch assoluto: è impossibile non passare il film a chiedersi dove sia Gabriel Garko, se Al Pacino sia sempre stato così cane, e chi sia lo stagista che ha scritto Connie come tre personaggi completamente diversi nel primo nel secondo e nel terzo film – io mi sono detta: sì, d’accordo, ti chiedi tutto il tempo «Ma dove volete andare, senza Brando», ma non è che una non se lo chieda anche durante il secondo film.
Tuttavia non avrei espresso pubblicamente questa mia posizione, se non avessi per pura coincidenza rivisto “Stregata dalla luna”. “Stregata dalla luna” è una commedia romantica dell’87: tredici anni dopo il secondo Padrino, tre anni prima del terzo. Cher interpreta un’italoamericana, vedova, che sta per sposarsi con un uomo e s’innamora del di lui fratello.
Se guardate il secondo Padrino con l’audio originale, nelle parti di flashback in cui De Niro è il giovane Vito Corleone non capirete una parola. De Niro parla con gli altri italoamericani in quello che dovrebbe essere l’italiano di casa, la lingua appresa da piccolo, prima d’arrivare a Ellis Island. Solo che colui inspiegabilmente equivocato come il più grande attore dei suoi tempi è stato incapace di procurarsi un accento italiano, e quindi parla come quel che è: un anglofono che ha imparato delle battute in una lingua che non conosce e le pronuncia naturalmente con un accento americano, però le biascica sperando che così si senta meno che non ha studiato la parte.
L’unica cui viene concessa una sciatteria del genere, in “Stregata dalla luna”, è la madre morente del quasi sposo, che sul letto di morte dice, con accento e sintassi americana, «Quanto io devo aspettare?» (oltretutto sarebbe l’unica che vive ancora in Sicilia, e che quindi non ha ragioni per l’accento anglofono). Tutti gli altri hanno il suono di gente per cui l’italiano è la prima lingua. Persino Olympia Dukakis, che è greca, sembra italiana; persino la vecchia che Cher incontra in aeroporto e le dice d’aver lanciato una maledizione sull’aereo, persino lei che ha una sola scena, persino lei parla italiano come un’italiana. E sì, lo so che Cher ha vinto un Oscar per quel ruolo, tuttavia nessuno pensa a lei come a una grande attrice (evidentemente neanche come una grande cantante: non è tra i duecento nomi della classifica di Rolling Stone, eppure nessuno s’è indignato, mi pare).
Cher – che è armena – fa l’italiana meglio di come De Niro – simbolo massimo degli italoamericani, almeno finché non è arrivato Tony Soprano – facesse l’italiano. Cher è un’attrice migliore di Robert De Niro. Ma per fortuna, con cento righe di premesse, non rischio che qualcuno si accorga di quest’affermazione e volantini questo articolo per dire che sono una scema nonché ignorante, una che dovrebbe scrivere di uncinetto e ricami, il simbolo del declino dei giornali e la causa del rivoltarsi nella tomba di Pauline Kael. Per fortuna in questo secolo si legge solo il titolo.