Ramo secco Il libro di Harry e il destino delle monarchie dove i figli so’ piezz’e ricambio

Il secondogenito di Carlo e Diana svela nell’autobiografia intitolata “Spare” che il padre lo considera un figlio di troppo (più altri aneddoti che non aveva raccontato a Netflix sul fratello, sulla cognata e su Camilla)

AP/Lapresse

Ah, avere delle microspie negli uffici di Netflix. Ah, avere delle microspie negli uffici della Mondadori. Ah, sapere chi ha preso peggio, ieri, i brandelli usciti sui giornali inglesi dell’autobiografia di Harry: secondogenito di Diana Spencer, marito di Meghan Markle, e pezzo di ricambio della corona (da cui il titolo “Spare”, giacché Carlo aveva detto a Diana «mi hai dato un erede e un pezzo di ricambio», an heir and a spare; Mondadori, misteriosamente, ha deciso di tradurlo “Il minore”).

Azzardo che l’abbiano presa peggio a Netflix. Certo, il povero ufficio stampa Mondadori aveva fatto firmare impegni a non bruciare le esclusive, parlare del libro prima dell’uscita, si era tenuto le bozze in cassaforte – e poi arrivano gli inglesi e gli americani. Gente che fa i giornali con le notizie invece che con gli uffici stampa, e ieri ecco lì che tutte le parti succulente stavano spalmate ovunque, dal Guardian al Sun a Page Six, e oggi tutti i giornali italiani le ricopieranno, e col tuo bravo lancio stampa accuratamente pianificato per martedì puoi farci gli aeroplanini.

Ma vuoi mettere quanto dev’essersela presa la signora Netflix, coi fantastiliardi di cui ha ricoperto i coniugi Markle per sei puntate da un’ora l’una in cui non c’era talmente niente che ai giornali determinati a parlarne comunque è toccato fare i titoli con «Harry è pentito del costume da nazista indossato a una festa di carnevale a vent’anni ma nei vent’anni successivi è andato a visitare i campi di concentramento e s’è molto contrito».

Sei ore a pensare che quelle sei ore non ce le avrebbe restituite nessuno, che stavamo guardando la versione prolissa e annacquata dell’intervista con Oprah Winfrey, che quella dei coniugi ai danni di Netflix era una rapina, ma se una multinazionale è così fessa da farsi rapinare peggio per lei; sei ore a dire: certo, perché di concreto non hanno niente da raccontare.

E poi, poche settimane dopo, scoprire che le ghiottonerie pettegole (vere o inventate, fondate o paranoiche: chi se ne importa, ora stai a vedere che dobbiamo preoccuparci del reale e del razionale quando parliamo di monarchia) le avevano, e si erano ben guardati dal dirle nel documentario, avendo preferito farle mettere in bella prosa da J.R. Moehringer (l’autobiografia di Harry è auto solo formalmente: ha lo stesso prestigioso e geniale autore che già scrisse quella di André Agassi, “Open”).

Dunque, vediamo cosa sappiamo già del libro che magari martedì avremmo comprato per venticinque euro, un libro grazie al quale Harry pomposamente annuncia che darà trecentomila sterline in beneficenza (l’anticipo per quattro libri – questo più altri tre da decidere: forse uno sarà di Meghan – è di venti milioni di dollari; la mancia va in beneficenza).

Sappiamo che «in un weekend di caccia in campagna» (e «qualche altra volta») Harry ha provato la cocaina, come un po’ tutti; fuori dalle case regnanti non è neanche una notizia, ma dentro forse non saranno lietissimi di trovare nel libro questo dettagliuccio. Poteva andar peggio: poteva dirlo su Netflix.

Sappiamo che a Netflix manco la storia del costume nazista gliel’ha data integrale: la parte più succulenta (meglio: l’unico dettaglio interessante) sta nel libro, ed è – ci avreste scommesso? – che la colpa del costume nazista di Harry non è di Harry, ma di William e Kate che, con la perfidia di Anastasia e Genoveffa (le sorellastre di Cenerentola), lo convinsero a indossarlo.

D’altra parte Harry aveva vent’anni, l’età alla quale Guccini diagnosticò che si è stupidi davvero, l’età alla quale Madame si è fatta convincere a farsi fare un falso certificato vaccinale, figuriamoci se Harry non potevano convincerlo a travestirsi da Mengele. (La sintesi degli stralci pubblicati dal New York Post è «Tutti a prendersela con me, Calimero, ma William era il fratello maggiore e ha riso tantissimo del costume». William, il Franti che questo libro “Cuore“ può permettersi, aveva ventidue anni).

Vent’anni sono anche l’età alla quale Harry avrebbe chiesto – assieme al fratello – al padre di non sposare Camilla: in cambio di questa promessa, erano disposti ad accoglierla in famiglia. Ma poi il cattivissimo quasi re non ha mantenuto, è la vibrante accusa del pulcino Harry, una promessa che non aveva mai fatto: nella scena narrata da Harry, il padre a questa richiesta non risponde. Tuttavia non è colpa del padre, e questo è il mio dettaglio preferito: il maschio della coppia per cui qualunque cosa succeda a Meghan è razzismo e sessismo e incapacità di accogliere gli esterni dentro la famiglia reale, il maschio di quella coppia lì dà la colpa di tutto alla donna cattiva, all’estranea cattiva, a Camilla. «Sarà malvagia con me? Una matrigna malvagia?», si sarebbe chiesto il ventenne Harry, e qui bisogna che prendiamo una decisione come società.

I ventenni sono quelli che salveranno il mondo e che capiscono le giuste cause e ci illuminano a riguardo, o quelli non in grado di vaccinarsi, emanciparsi dalle matrigne, trovarsi il culo con le mani? Le urne piene e il suffragio ubriaco non si possono avere: gli esseri umani di questo secolo sono pronti per il diritto di voto abbassato ai sedicenni, o è meglio alzarlo ai trentacinquenni?

(È plausibile che sia vero che Camilla abbia rapporti con la stampa – d’altra parte la più abile fornitrice di pizzini alla stampa nella storia della corona inglese è stata Diana. Andrew Morton, già biografo di Diana, racconta che, ogni volta che l’opinione pubblica ha dato segno di non digerire Camilla, Carlo ha lasciato trapelare notizie negative su altri membri della casa reale per deviare l’attenzione. Quel che è implausibile è che Harry, cresciuto nella famiglia reale, si meravigli delle dinamiche di potere e trasecoli nel suo libro e nelle interviste promozionali come fosse il figlio della comare Cozzolino).

L’unico articolo che valesse la pena leggere sul documentario di Meghan e Harry su Netflix era quello di Caitlin Flanagan sull’Atlantic. Nel quale l’autrice ricordava che Harry era molto più virile – nel senso stereotipato del termine – dei suoi familiari, come aveva dimostrato combattendo in Afghanistan. «Non era Carlo, che si faceva venire il mal di mare da arruolato nella marina militare. O Andrew, che alle Falkland si scopriva portatore della malattia per cui non sei più capace di sudare. O William che assiste la guardia costiera. Era una guerra, e Harry è sopravvissuto, è tornato a casa con le ferite alla psiche di tutti quelli che tornano dal fronte, ed è andato avanti con la sua vita». Flanagan è talmente brava che mi aveva convinto, giuro.

Poi ho letto il brano dell’autobiografia su William che aggredisce Harry, lo prende per la collottola, lo sbatte sulla ciotola del cane, gli dice «Ora non c’è bisogno che lo racconti a Meg», e Harry (a pezzi) a quel punto va a dirlo alla psicanalista: mi è sembrato più simile a un personaggio di Woody Allen che a un eroe di guerra, ecco.

«Ora non c’è bisogno che lo racconti a Meg» mi ha ricordato l’unico punto interessante delle sei ore di Netflix: quello in cui Meghan sbraita «Lasciamo stare, non voglio dire niente su tuo fratello». Ore e ore, centinaia e centinaia di pagine a cercare di convincerci che le dinamiche di potere siano tali e quali a quelle di tutte le famiglie, a cercare di convincere noi e loro stessi che le nostre famiglie siano tali e quali alla loro, e poi l’unico momento in cui diventa vero è in quei dettagli lì: tutti i cognati che si detestano si somigliano, a Buckingham Palace e a casa nostra.

Nella sua newsletter The Optionist, Andy Lewis ha ricostruito la scommessa editoriale di dare venti milioni di dollari a Harry. Facendo i conti di quanto va a lui e quanto all’editore, di quanto sia ragionevole pensare venda, aveva concluso che il banco vince sempre, e che l’editore americano recupererà metà dell’anticipo già con questo primo libro, tra vendite sul mercato di lingua inglese e all’estero. Anche lui mi aveva convinta (anche a guidare una rivoluzione degli autori per un aumento delle royalties). Poi però mi sono ricordata del pubblico di Harry. Ventenni che non sanno vaccinarsi ma sanno che è tutto discriminazione, tutto oppressione, tutto ingiustizia, e che chi fa la vittima ha ragione sempre. Ventenni determinati a lamentarsi, ma soprattutto a non studiare.

Forse Mondadori soffre di più. Sì, Netflix ha speso più soldi, ma può contare su una generazione che, da San Patrignano a Emanuela Orlandi alle corna di Diana Spencer, non conosce il mondo o la storia o il costume o il proprio cortile finché non glielo spiegano a puntate. Da Netflix questi giovani inetti si comprano qualunque cosa; figuriamoci invece se si comprano cinquecento pagine di libro, ora che le parti più succulente sono già sintetizzate in comodi bocconcini su TikTok.

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