Per un attimo, Enrique Iglesias si è giocato la vicepresidenza del Parlamento europeo. È solo un voto di prova, gli altri candidati fittizi sono Vanessa Paradis e Stromae. La plenaria di Strasburgo deve scegliere un nuovo vice al posto di Eva Kaili, travolta dal Qatargate. Al secondo scrutinio segreto, viene eletto con 307 preferenze il lussemburghese Marc Angel dei Socialisti e Democratici (S&D). Al primo giro si ferma a un solo voto dalla maggioranza assoluta di 264: già lì è chiaro che sta reggendo, con qualche incrinatura, il patto tra Socialisti e Popolari su cui si regge l’architettura della «maggioranza Ursula», con la benedizione di Renew Europe.
Si erano sprecate le voci – che non sono solo voci, visti i contatti informali e i malumori preventivi nel corpo del partito – su un avvicinamento tra il plenipotenziario del Ppe, Manfred Weber, e Fratelli d’Italia, nella persona della premier Giorgia Meloni. Ieri ha prevalso uno spirito da usato sicuro, da Pacta sunt servanda. In base agli stessi accordi grazie ai quali David Sassoli è stato presidente, il quinto vice dell’aula spettava ai socialisti. Le tre principali famiglie politiche avevano i numeri per risolverla al primo turno, quando probabilmente una parte dei Popolari preferisce Annalisa Tardino, candidata in quota Lega del gruppo sovranista Identità e Democrazia (ID).
Il richiamo all’ordine si fa sentire al secondo scrutinio. Tardino sale (poco), il lussemburghese varca la soglia richiesta dalle regole; terza la francese Gwendoline Delbos-Corfield dei Verdi (113), su cui sono confluiti i Cinquestelle. La leghista ci credeva. Quelli di ID sono gli unici a non esprimere un vicepresidente. Verdi, Sinistra e i conservatori di Ecr li hanno. Scontano il cosiddetto «cordone sanitario», l’esclusione dal governo collegiale a causa delle sbandate filoputiniane di alcune formazioni del gruppo. Incassato il sostegno degli orbaniani di Fidesz, Tardino sperava nell’aiuto di Forza Italia e Fratelli d’Italia, diciotto deputati in due.
Quello degli azzurri, nonostante l’ordine di scuderia di Weber di sostenere il nome socialista, probabilmente c’è stato solo nella prima votazione. Quello dei meloniani, forse, in entrambe. A sentire i rumors, il partito di Meloni viene corteggiato, o corteggia, il Ppe, che ha mostrato una certa apertura al dialogo anche con ID. Solo un flirt, per ora. Politico ha riferito di una lite ai vertici, tra Weber e la leader socialista Iratxe García Pérez, ai margini di una conferenza dei presidenti (la capigruppo dell’Eurocamera).
I sondaggi sono come il fronte occidentale di Remarque: nulla di nuovo. Se viene previsto, a livello continentale, un calo dei tre azionisti della maggioranza Ursula, ed è verosimile che uno di loro (S&D) possa accusare l’onda lunga del Qatargate, non risulta – almeno, non ancora – un’avanzata conservatrice tale da compensare l’arretramento degli alleati, se il centrodestra europeo si decidesse a scaricarli.
Nel Ppe esistono due tendenze, tipo il nostro Pd. Sono tendenze spiegabili anche con un’anomalia: il centrodestra è sovra rappresentato, non annovera più capi di governo, ma vive di rendita sul risultato del 2019. Per questo, una sua parte (ad oggi minoritaria) vorrebbe aprire alla destra post-fascista per restare al potere, l’altra rigetta con apparentamenti con forze che sono state antieuropeiste prima di essere antisistema. I conservatori, intanto, rivendicano di essere un interlocutore decisivo. «L’elettorato cresce in tutta Europa e chiede ai partiti più rilevanti di costruire a Bruxelles una maggioranza alternativa a quella esistita finora», ha detto l’eurodeputato di FdI Vincenzo Sofo in un’intervista a Euractiv.
In Germania e Polonia già frenano. In Italia, la destra liberale governa con quella pura, di cui è ormai junior partner di coalizione, ma in Europa è – o è stato – il contrario. Per la Cdu tedesca sarebbe impensabile una coabitazione con Alternative für Deutschland, per esempio. A dicembre si vota in Spagna e nella tenuta del Partido Popular, e specularmente nell’avanzata o meno di Vox, si potranno iniziare a misurare gli equilibri verso il 2024.
Un altro test, nello stesso periodo, saranno le elezioni polacche. Se vincesse Jarosław Kaczyński, uomo forte di un PiS in attrito costante con l’Ue sullo stato di diritto, per Meloni sarebbe più complesso avvicinarsi ai Popolari. Se il suo alleato venisse sconfitto, magari da una vecchia gloria come Donald Tusk, la premier (nonché presidente dei Conservatori europei) potrebbe traghettare l’operazione senza impresentabilità collaterali, cioè senza contraenti in rotta di collisione con le istituzioni nel cui governo vorrebbe essere coinvolta.
Il Ppe che guarda a destra, insomma, guarda a una destra che non esiste ancora. Per esempio, un Ecr senza i polacchi del PiS, che sono diretti avversari di quelli saldamente nel Ppe, capeggiati proprio da Tusk. Allo stesso modo, le suggestioni – non irrealistiche, ma complicate – di offrire una tessera a Fratelli d’Italia scontenterebbero Forza Italia, che di rappresentare il «centro popolare, moderato e cristiano» nel nostro Paese ha fatto la sua raison d’être. O un meccanismo difensivo: è Renew a fare da ago della bilancia, può arrivare alla maggioranza quando si allinea a Verdi e Socialisti.
«Mi sembra che la strategia di Weber sia rafforzare il legame con Ecr – spiega a Linkiesta l’eurodeputato di Renew, Sandro Gozi –. Voglio vedere se veramente il Ppe sarà coeso e vorrà tutto andare in una direzione che rinnega la sua storia. Se decidesse di fare un’alleanza politica e strategica con Ecr, sarebbe una deriva di estrema destra che solleverebbe molti punti interrogativi. Anche perché i membri del Ppe, a differenza di qualcuno in Italia, sanno bene cos’è Ecr: un partito di estrema destra che si nasconde dietro l’etichetta dei conservatori».
«Al Parlamento europeo tutto cambia perché nulla cambi». Ha note gattopardesche il comunicato di ID, sottoscritto da Marco Zanni e dal capodelegazione leghista Marco Campomenosi. Ma pure un avvertimento: «Questo voto, con le evidenti spaccature emerse negli altri gruppi, impone una riflessione. E in vista del 2024 c’è chi, come i popolari, deve decidere se uscire da una certa ambiguità». In sintesi: o con la sinistra, o con «noi», a difesa dei «valori del centrodestra abbandonati». Il Carroccio, a Roma, fa parte del governo capeggiato dalla prima indiziata per scaricarli in Europa – e anche questa è una nota politica.
«Dal voto si possono vedere delle ambiguità nel comportamento del Ppe – dice a Linkiesta l’eurodeputato del Pd Brando Benifei –. Credo che per chiarezza politica dovrebbero spiegare anche ai loro elettori qual è la strategia per il futuro: diventare completamente dipendenti dalla destra più radicale, che probabilmente si rafforzerà a loro scapito nel prossimo Parlamento, o continuare a ragionare di una collaborazione, magari in forme nuove, con le forze che comunque rimangono europeiste e hanno lavorato insieme sulla Conferenza sul futuro dell’Europa e sulla riforma dei trattati?»
I popolari devono decidere cosa fare. A Strasburgo è stato rimandato l’abbraccio nazionalista, perché ancora non conviene nel pallottoliere. La presidente Roberta Metsola ha scelto la responsabilità istituzionale quando ha invitato l’emiciclo a non cannibalizzare uno scandalo su cui sappiamo troppo e al tempo stesso ancora troppo poco, ad astenersi dalla strumentalizzazione propagandistica. Non riuscirci, per il Ppe, potrebbe aprire una frattura: anzi che facilitarla, complicherebbe una centralità rinnovata nell’Europa che verrà. Potrebbe essere questo il principale freno a un’alleanza tutta virtuale. Da mettere in naftalina. Almeno fino alla notte dei risultati delle Europee 2024.
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