Il 2022 si è chiuso con l’approvazione della legge di bilancio, e la lunga conferenza stampa di fine anno del Presidente Giorgia Meloni, segnando il primo giro di boa per questo governo: una coalizione che aveva reso molto chiaro il suo posizionamento di ultradestra sui temi civili, ma che sui temi economici ancora veniva definita sociale da alcuni.
La manovra finanziaria, non è un segreto, la pagheranno non solo i poveri e i poverissimi, ma anche la classe media che si tiene a galla a fatica perché si è vista ridurre il potere d’acquisto in trent’anni di salari fermi, inflazione, e crisi di ogni tipo.
Si dibatte in questi giorni sul tema delle accise sulla benzina e delle promesse mancate, il primo dei tanti segni che fanno seguito a uscite più che controverse da parte del Presidente nei giorni prima di Capodanno: dalla retorica sui giovani viziati, alla confusione sulla relazione tra tetto al contante ed evasione fiscale, passando per il Mes e l’imbarazzante affermazione che la manovra non contiene condoni.
Ciò che più suona incredibilmente fuori dal tempo, e che avrà l’impatto maggiore sulla nostra economia, è la narrazione secondo la quale bisogna tagliare le tasse alle aziende per far sì che queste aumentino le assunzioni e dunque ridistribuiscano ricchezza. Una ricetta stantia e di comprovata inefficacia.
Meloni lo dice chiaramente: non ritiene che sia compito dello Stato combattere la povertà. Insomma, una volta messe le aziende in condizione di assumere si salvi chi può – con buona pace dei diritti dei lavoratori che in epoca di segmentazione del mercato sono sempre più deboli e impari. Così la guerra diventa tra chi ha poco e chi ha meno, visto che chi ha molto non viene intaccato davvero.
Il problema principale? Nessuna forza di opposizione ha dimostrato di avere un piano serio, credibile, e non altrettanto stantio – né in materia di occupazione, né in materia di fiscalità. Ne sono prova sia i recenti anni di governo, sia l’irrilevanza sostanziale dell’infinito dibattito sull’uso del pos che per settimane ha inondato i media.
Eppure, come funziona il sistema fiscale è il nodo cruciale dei nostri tempi, se si vogliono rendere le economie prospere, sostenibili ed eque. Economie, sì, perché la dimensione nazionale della politica ha perso di senso nel nostro mondo interconnesso, specialmente in materia fiscale.
Non è un segreto che le grandi multinazionali eludano ed evadano ogni anno miliardi di tasse sottraendole alla collettività, e dunque al benessere collettivo e individuale. Secondo il World Inequality report 2022 infatti, mentre la ricchezza privata è in aumento, i governi diventano più poveri e sono dunque sempre meno capaci di portare un vero cambiamento per le persone comuni, per esempio con investimenti su istruzione, sanità o lotta al cambiamento climatico.
Per questa ragione, i dati sul Pil non sono affidabili per comprendere cosa succede nella vita delle persone fuori dalla piccola bolla privilegiata delle grandi città. Con il progressivo declino delle aliquote dagli anni Ottanta oggi, la tassazione sulle aziende è passata in media dal quarantanove al ventiquattro per cento globalmente (dal trentuno al ventiquattro per cento in Italia). Il risultato è che miliardari e multinazionali sono diventati attori economici pressoché incontrastati.
Nel 2021, I Paesi Ocse hanno finalmente siglato un accordo per una tassa minima sui profitti delle multinazionali al quindici per cento. Questo risultato, per quanto rappresenti un passo nella giusta direzione, è un frutto troppo piccolo e troppo poco ambizioso per i sedici anni in cui l’Ocse è stato leader mondiale nella definizione di regole sulla fiscalità globale. La proposta è piena di cavilli e scappatoie che la rendono solo parzialmente rilevante.
Da poche settimane, e nell’assenza generale del dibattito italiano, la leadership su questo tema cruciale passata alle Nazioni Unite, ma la grande assente continua ad essere la politica. I governi e i partiti nazionali sembrano aver raggiunto il limite della loro rilevanza rispetto alle sfide dei nostri tempi, le quali non vedono confini.
Gli organismi internazionali sono spesso gigantesche macchine dal funzionamento opaco, con meccanismi di controllo poco efficienti da parte degli elettori, come reso dolorosamente evidente dal Qatargate.
Abbiamo bisogno di istituzioni forti che possano difendere i diritti sociali di fronte ai colossi delle multinazionali. Abbiamo bisogno di introdurre nuovi indicatori da affiancare al Pil al fine di indirizzare le politiche nazionali ed europee a favore di una efficiente redistribuzione delle ricchezze e della sostenibilità ambientale.
Questa finanziaria non solo va nella direzione opposta, ma manca completamente di uno sguardo internazionale. I risultati saranno purtroppo dolorosi per le fasce deboli, sul breve e medio periodo e, sul lungo periodo, completamente irrilevanti nel determinare un cambiamento di rotta per la nostra società e per le sfide che dobbiamo affrontare.