Benvenuti al NordCome il governo Meloni vuole ostacolare l’attività delle navi Ong

L’assegnazione di porti lontani da quelli meridionali e il nuovo decreto approvato dal CdM indicano la volontà politica di contrastare gli operatori umanitari. Ma senza di loro spariscono gli unici occhi indipendenti sui crimini commessi nel Mediterraneo

Lapresse

È l’ultimo giorno del 2022 quando la nave Ocean Viking, dell’organizzazione non governativa Sos Mediterranee, attracca nel porto di Ravenna. A bordo ci sono centotredici persone, recuperate in mezzo al Mediterraneo da un gommone strapieno, nella notte tra il 26 e il 27 dicembre. Tra loro ventitré donne e una trentina di minori non accompagnati, in fuga dalla Libia. Dei tre bambini a bordo, il più piccolo ha solo diciotto giorni. Sua madre, appena maggiorenne, ha preso il mare con il neonato dopo più di un anno di prigionia.

Ravenna, per la precisione Porto Corsini, non è certamente una località nota alle cronache per gli sbarchi di migranti. Così come non lo sono Genova, Ancona, Olbia, Trieste. Non lo è Livorno, porto assegnato alle navi Sea Eye (dell’omonima Ong), e Life Support, di Emergency. Non lo è nemmeno La Spezia, città ligure inizialmente indicata a Ocean Viking come “Place of Safety” (Pos) dalle autorità italiane, che hanno poi cambiato la destinazione finale in Ravenna. Che rimane comunque a oltre novecento miglia nautiche dal luogo di recupero, ovvero quattro giorni di navigazione, con tutti i rischi che ciò comporta per le persone a bordo.

«Anche se siamo sollevati che loro raggiungano la salvezza e abbiano le cure necessarie sulla terraferma», dichiara al momento dello sbarco Sos Mediterranee in un tweet, «siamo preoccupati per le persone che potrebbero essere in pericolo in mare, oltre 1800 km a sud dalla nostra nave». Come scrive la stessa organizzazione, infatti, Ocean Viking è «l’unica nave Ong attualmente operativa in mare».

Ocean Viking è l’ultima vittima di una guerra contro le Ong iniziata nel lontano 2017, a seguito di alcune pubblicazioni, anche da parte di canali istituzionali, riguardo sospette attività illecite degli operatori del mare. Da angeli, agli occhi dell’opinione pubblica le navi umanitarie diventarono allora complici di traffico di esseri umani, impressione accentuata da fortunate definizioni politiche come quella di «taxi del Mediterraneo», coniata dall’allora vicepresidente della Camera, Luigi Di Maio.

Il 2017 è anche l’anno del Codice di Condotta per le Ong del ministro dell’Interno Marco Minniti, peraltro firmatario del memorandum con la cosiddetta Guardia Costiera libica, cui sono seguite le due “leggi sicurezza e immigrazione” volute dal suo successore Salvini nel 2018 e nel 2019.

Una battaglia che ha abbracciato quindi l’intero arco politico, volta a disincentivare l’attività delle navi di organizzazioni umanitarie in mare con ogni mezzo disponibile. L’assegnazione di porti lontani, ai cui nomi ci si dovrà apparentemente abituare, è uno di questi strumenti. Una misura ufficialmente adottata per non far sbarcare più i migranti «solo in Calabria e Sicilia con strutture sotto stress», come ha dichiarato il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi a Repubblica qualche giorno fa.

Come scrivevamo in questo articolo, però, il diritto internazionale la vede un po’ diversamente. La Convenzione internazionale di Amburgo (“Convenzione Sar”) prevede l’obbligo per le autorità competenti di individuare il Place of Safety più vicino, non un qualsiasi “porto sicuro” generico: deve essere il luogo raggiungibile con la minima deviazione di rotta possibile, che possa garantire il rispetto dei diritti umani e la facoltà di richiedere asilo.

A questo si aggiunge l’ultimo decreto sui soccorsi in mare a firma Piantedosi, approvato dal Consiglio dei Ministri il 28 dicembre. La norma ha l’obiettivo di regolare il lavoro delle organizzazioni umanitarie che salvano le persone in mare, e tra i punti principali individua obblighi in parte già stabiliti dalle leggi internazionali: comunicare tempestivamente alle autorità ogni soccorso effettuato, coordinarsi con esse per richiedere un porto di sbarco, disporre delle autorizzazioni e dell’equipaggiamento necessario al soccorso. Sembra perciò che quanto emanato abbia semplicemente lo scopo di rallentare e disincentivare ulteriormente le attività di soccorso da parte di soggetti privati, aumentando il rischio di contenziosi, multe (che nello specifico vanno da diecimila a cinquantamila euro) e sequestri delle imbarcazioni.

Uno dei concetti maggiormente ribaditi nel decreto è il «raggiungimento, senza ritardo, del porto di sbarco», che sembra essere in linea con quanto stabilito dalla normativa internazionale richiamata in precedenza. Salta subito all’occhio, perciò, come la decisione di assegnare alle navi porti lontanissimi da quelli immediatamente disponibili appaia quantomeno in contraddizione con queste ultime, e con il decreto stesso.

«Il Governo non può imporre che le persone vengano portate a Trieste se c’è il porto di Siracusa e non ci sono motivazioni valide per non assegnare quel porto. L’unica motivazione legittima potrebbe essere che quel porto è in quel momento congestionato», spiega il giurista Gianfranco Schiavone, dell’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione, nel corso di un’intervista al magazine specializzato Vita. «Ma allora – per assegnare Trieste – deve avere problemi operativi anche il porto di Catania, o di Palermo, o di Augusta o le decine porti più vicini di Trieste».

Rispetto alla normativa vigente (convenzioni, trattati e diritto consuetudinario), il decreto introduce però un’importante novità: il contrasto ai soccorsi plurimi e ai trasbordi, ovvero il trasferimento da navi di piccole dimensioni a navi più grandi per poter effettuare altre operazioni di soccorso. «Nel caso di operazioni di soccorso plurime», si legge, « le operazioni successive alla prima devono essere effettuate in conformità agli obblighi di notifica e non devono compromettere l’obbligo di raggiungimento, senza ritardo, del porto di sbarco».

Nonostante questo contrasti con il Codice della navigazione (artt. 489 e 490, parti del Titolo IV su assistenza e salvataggio), è evidente come la possibilità di incorrere in multe molto pesanti e nella confisca della nave per due mesi – cui è possibile fare ricorso, certo, ma con esiti immediati pesanti sulle attività di soccorsi – costituisca un grande impedimento per chi vuole continuare a effettuare i recuperi in ottemperanza alla legge.

Se a tutto ciò si aggiunge l’assegnazione di porti nel Centro e nel Nord Italia, si ha un quadro più esaustivo di come il governo italiano, in completa continuità con gli esecutivi di ogni colore politico insediatisi in precedenza, voglia ostacolare il più possibile l’attività di organismi al di fuori del controllo governativo, in una lotta politica che avviene ancora una volta sulla pelle di persone assolutamente inerti.

La quota di persone salvate dalle organizzazioni non governative rispetto al totale degli sbarchi dal Mediterraneo è bassissima: secondo i dati dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi), di oltre centomila arrivi nel 2022 sono solo diecimila quelli avvenuti a bordo di navi delle Ong, un rapporto di uno su dieci.

Ciononostante, la presenza di operatori umanitari è combattuta aspramente e incessantemente, con effetti importanti sulla percezione da parte dell’opinione pubblica nei confronti di tali attori: la pubblicazione di leggi che ribadiscono obblighi già esistenti, unita al continuo accostamento ad attività illecite o a fattori di attrazione per i migranti (entrambi mai dimostrati concretamente), contribuisce a generare un’aura collettiva di sospetto che questi operatori agiscano contro la legge.

Non a caso, più volte, gli esponenti politici e istituzionali (compreso lo stesso Piantedosi) si sono riferiti alle imbarcazioni umanitarie parlando di “navi fuorilegge”, nonostante non vi siano indizi a sostegno di affermazioni simili.

Ma come mai, se fino a prova contraria agiscono in conformità con gli obblighi del diritto, le Ong sono nuovamente sotto attacco? Come mai lo sono da anni? A questo punto, viene spontaneo speculare sul ruolo scomodo che attori indipendenti svolgono nell’area mediterranea in qualità di testimoni. Senza le organizzazioni non governative spariscono, di fatto, gli occhi che hanno sempre contribuito a portare alla luce le persistenti violazioni dei diritti umani perpetrate a ridosso delle coste libiche. Abusi, torture, uccisioni, traffico di esseri umani e stupefacenti. Attività in mano a soggetti come le milizie libiche, che costituiscono anche quella cosiddetta “Guardia Costiera” che il governo italiano finanzia (con approvazione parlamentare, ogni anno) per impedire ai migranti di prendere il mare.