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Oltre lo smart workingCinque sfumature di lavoro ibrido

Dal «mainly physical» al «fully virtual», non esiste un modello che vada bene per tutti. Ogni organizzazione, in base ai propri obiettivi, definisce il suo impianto di lavoro, come spiega il professor Luca Solari

(Unsplash)

Tratto da Morning Future

«Oggi il modo di organizzare il lavoro è plurale dal punto di vista dello spazio e del tempo», dice Luca Solari, professore di Organizzazione aziendale all’Università degli Studi di Milano. Significa che può accadere in luoghi molto diversi e che i tempi in cui le persone lavorano possono a loro volta essere organizzati in maniera più eterogenea che in passato.

La pluralità del lavoro si inserisce in quella che viene definita “hybrid work era”, cioè un’epoca in cui regna il lavoro liquido. «Lo chiamiamo “ibrido” perché veniamo da una tradizione di lavoro che aveva tendenzialmente un unico spazio, l’ufficio, e il tempo, che corrispondeva all’orario di lavoro tradizionale. Che poteva voler dire che se un giorno io non avevo particolari attività, comunque, dovevo stare un numero stabilito di ore in ufficio, molto spesso in attesa che il capo mi chiamasse», aggiunge il professor Solari.

Con la modalità ibrida si passa dallo sviluppo del lavoro su una coordinata spazio-temporale fissa a una concezione che consente infinite variazioni sia in termini di spazio che in termini di tempo.

Il lavoro ibrido in realtà non si è sviluppato dopo la pandemia. L’avvento del Covid-19 «ha velocizzato un processo che nei fatti era già in parte in corso», spiega Luca Solari. «Ci ha aiutato a sviluppare sia la disponibilità che la capacità d’uso della tecnologia. Ha quindi creato le precondizioni perché questa esplosione delle coordinate spazio-temporali fosse fattibile».

Ma l’hybrid work non si esaurisce nella dicotomia lavoro in presenza-da remoto. In realtà ci sono numerose sfumature intermedie.

Dal fisico al remoto
Secondo la nuova ricerca “New Future of Work” di Microsoft, possiamo identificare cinque step intermedi tra un lavoro 100% in presenza e un lavoro 100% da remoto.

Il modello di lavoro più conosciuto è il mainly physical e corrisponde al lavoro per come siamo abituati a conoscerlo, cioè prevalentemente in sede. Nonostante l’input della pandemia, pare che molte imprese stiano cercando di tornare al lavoro totalmente in presenza. Alla base di questa scelta ci sono varie motivazioni.

«Per alcune organizzazioni determinati tipi di attività sembrano ancora oggi essere associati a una necessità di interazione e di incontro diretto», afferma Solari. Altre motivano il rientro spiegando che, in caso contrario, ci sarebbero percezioni di iniquità. «Pensiamo alle aziende manifatturiere, per le quali gli operai non possono godere dei vantaggi dello smart working. C’è l’idea che sia necessario che tutti vadano al lavoro, in caso contrario si creerebbero condizioni di iniquità». In altri casi ancora, le aziende decidono di tornare in presenza a causa della fatica nel coordinare team distribuiti.

Scegliere di tornare in presenza ha sicuramente dei rischi perché la pandemia «ha spostato il bilanciamento dei fattori dal punto di vista delle persone», sostiene Luca Solari. «Le organizzazioni, quindi, sono libere di prendere le loro scelte, ma si devono confrontare con il fatto che anche le persone sono libere di scegliere. Quello che sta accadendo è che per molti lavoratori certi elementi di flessibilità oggi valgono molto di più che in passato».

Esiste poi il modello activity based, secondo cui i dipendenti sono più produttivi se si trovano negli spazi adatti ai compiti che devono portare a termine. Quindi, si lavora in parte in sede e in parte da remoto, in base all’attività. Tra gli aspetti positivi, si evidenziano l’ottimizzazione degli spazi, il mantenimento dell’ufficio come sede di innovazione e interazione e lo stimolo alla collaborazione. Sicuramente, però, sono necessarie indagini approfondite su come equilibrare il lavoro, investendo anche in tecnologie che mantengano efficace la collaborazione ibrida.

Il lavoro prevalentemente da remoto prende invece il nome di modello club house e vede la sede come un luogo rappresentativo e identitario. Il lavoro viene principalmente svolto da remoto e la sede fisica dell’azienda si utilizza soprattutto per incontri con esterni e conferenze. L’organizzazione del lavoro, rispetto al modello precedente, richiede una maturità e un livello di organizzazione ulteriori.

Il modello hub and spoke si disloca tra sede e casa propria, dove però la sede acquisisce un ruolo più rilevante rispetto al modello club house. Chi lavora, infatti, può farlo anche in uffici satellite o spazi di coworking disposti sul territorio. La sede centrale è per lo più un simbolo identitario mentre, grazie alle sedi satellite, si ha la possibilità di lavorare vicino a casa propria. Questa modalità deve essere gestita in modo molto preciso perché porta a una suddivisione naturale della popolazione per zona geografica e non per appartenenza al gruppo di lavoro.

Chiude l’elenco il modello completamente da remoto, cioè il fully virtual. In questi casi bisogna tenere presente che è bene che le aziende investano in iniziative di socializzazione e in attività mirate che implementino il senso di appartenenza dei lavoratori.

A ognuno il suo modello
Non esiste però un modello unico che vada bene per tutte le imprese. «L’organizzazione del lavoro è molto personalizzata, per cui non ci sono soluzioni universali. Questo purtroppo è un problema perché alle organizzazioni piacciono le soluzioni semplici», afferma il professor Solari. Bisognerebbe quindi esaminare le attività partendo da un livello molto micro e analizzando, in primo luogo, quanto la tecnologia utilizzata dai lavoratori può essere decentrata.

In secondo luogo, secondo il professore, bisognerebbe studiare come funzionano i differenti team nelle molteplici aree per individuare il modello di organizzazione del lavoro più adeguato. In seguito, è necessario approfondire le caratteristiche operative di funzionamento del gruppo. «Noi utilizziamo le ONA, Organizational Network Analysis, che sono strumenti utili per vedere come le persone entrano in contatto tra loro per questioni di lavoro quando sono in ufficio e quando a distanza», aggiunge.

I dati confermano che nei prossimi anni non ci sarà una mediazione nel numero di giorni di lavoro in ufficio o da casa, il cambiamento sarà più radicale e coinvolgerà spazi, cultura aziendale, socializzazione, tecnologie, modelli di leadership. Per muoversi verso questa direzione è necessario che le organizzazioni abbiano chiari i loro obiettivi, che siano consapevoli dei propri punti di forza e delle carenze. «È più faticoso rispetto a una soluzione generale, però è esattamente quello che il manager dovrebbe fare, cioè cercare costantemente soluzioni migliori rispetto a quelle che ha».

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