Con il lavoro ibrido e da remoto che ha preso ormai piede nelle organizzazioni aziendali, anche la comunicazione sul lavoro è cambiata. Con un «rilassamento» generale, come riporta Axios, delle interlocuzioni e dei toni tra colleghi vicini e lontani. La formalità dei vecchi uffici tradizionali ha lasciato posto a forme di comunicazione maggiormente dirette e veloci, in modo da privilegiare l’efficienza nella trasmissione delle informazioni, a discapito di ogni cerimoniosità tipica dei rapporti lavorativi del passato. E in questo scenario, si è affermato l’uso delle emoji anche nei messaggi di lavoro all’interno di team che, spesso, non condividono gli stessi spazi fisici.
Quello che prima avveniva a voce oggi è sostituito da applicazioni di messaggistica immediata come Whatsapp, Telegram, Facebook Messenger o Slack. L’e-mail, specie dai giovani, è considerata ormai un canale di comunicazione troppo “lento” e formale.
Un tale stravolgimento tecnologico, col sorgere di piattaforme in grado di accelerare la ricezione e l’invio dei messaggi, secondo gli esperti di linguaggio e comunicazione, ha provocato un vero e proprio mutamento delle forme espressive che ha impattato profondamente anche sul mondo del lavoro.
«Noi parliamo di un sistema delle scritture digitali dove la mail sta all’estremo massimo della formalità, mentre al capo opposto sta l’utilizzo di emoji ed emoticon», spiega la professoressa Francesca Chiusaroli, docente di linguistica all’Università di Macerata e autrice di “Pinocchio in emojitaliano”, un interessante esperimento metaletterario che consiste nella traduzione della celebre opera di Carlo Collodi in una neolingua che utilizza esclusivamente gli emoji.
Le caratteristiche del nuovo linguaggio tipico del web sono principalmente due, dice la professoressa: «Una è l’abbassamento del livello di attenzione e di sorveglianza dello stile di scrittura, il che rende questo tipo di linguaggio sempre molto dinamico, spontaneo, ma passibile di vari refusi, perché poco o nulla viene riletto e corretto». L’altro, invece, riguarda la brevità. «Questi messaggi tendono ad essere molto bravi e veloci perché simulano in qualche modo il parlato spontaneo: infatti sono un sostituto più dello scambio a voce che di quello scritto».
Non è un caso, forse, che – secondo un sondaggio condotto da Slack – il 91 per cento dei lavoratori afferma che i propri messaggi sono stati fraintesi o interpretati male almeno una volta. Quanto emerge da questa statistica, però, non ha scoraggiato le persone a preferire la comunicazione via web anziché quella orale. Non solo. Adesso anche l’uso di emoji ed emoticon si fa sempre più comune nelle comunicazioni di lavoro, rendendo il rischio di incomprensioni ancora più alto.
Il 53 per cento dei lavoratori ha affermato di utilizzare le emoji nelle comunicazioni sul posto di lavoro e il 67 per cento si sente più legato a un collega che comprende l’uso di questi simboli.
Come spiega la professoressa Chiusaroli, una caratteristica delle immagini raffigurate da emoticon ed emoji è quella di essere polisemiche, cioè di avere significati non univoci. «Pensiamo al caso dei gesti che sono rappresentati dagli emoji, ci sono differenze culturali per cui un gesto può essere riconosciuto in un modo da una cultura e diversamente da un’altra», dice.
Tuttavia c’è da dire che, ironia della sorte, le moderne emoticon, forma più essenziale degli emoji (di origine giapponese), nascono proprio in un ambiente lavorativo. Come ricorda la professoressa Chiusaroli, la prima icona composta da una combinazione di segni di punteggiatura è stata inviata nel 1982 da Scott Fahlman all’interno di uno scambio comunicativo lavorativo professionale, in una chat interna a un gruppo di docenti universitari del dipartimento di informatica del Carnegie Mellon University di Pittsburgh in Pensilvania. L’intento del professore era quello di rendere le comunicazioni web più comprensibili traducendo in segni grafici ciò che solo l’intonazione della voce e il linguaggio extraverbale potevano conferire ad una frase, come ad esempio l’ironia.
«La comunicazione, infatti, non è fatta di sole parole», continua Chiusaroli, «ma di tutta una serie di elementi cosiddetti del “paralinguaggio” che possono essere lo sguardo, il tono della voce, il gesto delle mani, quindi tutto un contorno che disambigua costantemente il messaggio e che si perderebbe totalmente nel momento in cui facciamo uso di scambi veloci per iscritto».
In questo senso, allora, possiamo intendere l’uso degli emoticon, non come una perdita, o impoverimento del linguaggio scritto, ma come un ampliamento del linguaggio parlato, una forma nuova che aiuta a tradurre l’espressione di emozioni propria della comunicazione orale in una nuova forma ibrida del linguaggio. D’altronde questo concetto è rintracciabile nel nome stesso “emoticon” che in inglese è la crasi delle parole “emozione” e “icona”.
Per capire meglio tutte le sfumature comunicative e di significato che appartengono alle nuove forme di linguaggio occorrerà però una vera e propria rieducazione all’uso dei simboli. Sarà, in un certo senso, come tornare in prima elementare, per chi non è abituato a farne uso e provare a imparare di nuovo a scrivere. Mentre, per chi è nativo digitale, avere a che fare con la scrittura digitale sarà un esercizio molto più semplice e comune.
Per chi è diffidente e paventa la possibilità di un ritorno ai geroglifici, ovvero a una scrittura troppo stringata, povera dal punto di vista sintattico e semantico, la professoressa Chiusaroli mette in guardia verso simili paragoni: «Oggi recuperiamo in parte la dimensione delle scritture antiche. Ma senza un contesto semantico, da soli, i simboli non sono altro che un elenco di disegni che ognuno può utilizzare diversamente».