Tra crisi e carenza di manodoperaNel settore metalmeccanico mancano soprattutto i lavoratori stranieri

Il primo “Cruscotto del lavoro nella metalmeccanica” della Fim Cisl fotografa un settore in trasformazione. I tavoli di crisi sono 206, soprattutto nell’auto, metallurgia ed elettrodomestici. Ma per quasi l’otto per cento delle imprese la difficoltà di assumere nuove risorse è un problema per lo svolgimento dell’attività. Mancano non tanto figure specializzate quanto operai poco qualificati

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Il numero delle crisi nel settore metalmeccanico resta alto: 206, con 60.727 lavoratori coinvolti. Eppure, quasi l’8 per cento delle imprese denuncia un problema di mancanza di manodopera fra i fattori che impediscono il regolare svolgimento dell’attività. Non solo per figure specializzate, ma soprattutto per quelle meno qualificate e senza titoli di studio specifici. E il nodo, in questo caso, non sta nella mancanza di competenze sul mercato, ma nella scarsità di risorse, tra il calo demografico e il flusso ridotto di operai stranieri che costituiscono una parte importante della forza lavoro soprattutto in alcuni comparti.

La Fim, sindacato dei metalmeccanici della Cisl, ha prodotto il primo “Cruscotto del lavoro nella metalmeccanica”, fotografando un settore sì in crisi – soprattutto nei comparti dell’auto, della metallurgia e degli elettrodomestici – ma che comunque sta provando a navigare in piena tempesta, tra caro bollette, microchip che mancano e transizione energetica.

Nel secondo semestre del 2022, i lavoratori coinvolti nelle crisi del settore metalmeccanico sono diminuiti di diecimila unità rispetto alla prima parte dell’anno (erano 70.867 di giugno). Eppure, tra blocco dei licenziamenti e cassa integrazione, l’occupazione è rimasta sostanzialmente stabile durante l’ultima crisi Covid. Seppur con differenze notevoli fra i diversi comparti: -20mila occupati nei settori dei mezzi di trasporto e -18mila nella parte più a monte della filiera della metallurgia. «Di fatto, quindi, l’instabilità ciclica della domanda di lavoro negli ultimi tre anni si è risolta in variazioni nel corso del tempo delle ore lavorate per occupato, più che del numero di occupati», si legge nel report della Fim. «Le interruzioni dei rapporti di lavoro sono state nel complesso contenute».

Il problema ora sono le assunzioni e il clima di incertezza che si vede all’orizzonte. Sta pesando l’aumento del numero di persone che raggiungono l’età del pensionamento, ma anche all’ingresso nel mercato ci sono delle strozzature. Con l’Italia che invecchia, i giovani che entrano nel mercato sono sempre meno rispetto a quelli che escono. E i sempre più ridotti permessi di soggiorno per lavoro nel nostro Paese non riescono a tappare i buchi. Soprattutto nei settori dove l’incidenza degli operai immigrati è maggiore: nella “fabbricazione di prodotti in metallo” si arriva al tredici per cento, nella metallurgia si supera il 10 per cento, negli “altri mezzi di trasporto” è pari all’11,5 per cento.

«Per tornare ai livelli occupazionali pre-Covid, l’Italia avrebbe bisogno di circa 534mila lavoratori», scrive la Fondazione Moressa nel suo rapporto. «Considerando l’attuale presenza straniera per settore, il fabbisogno di manodopera straniera sarebbe di circa ottantamila unità».

Secondo i dati di Unioncamere-Excelsior, nel 2022 le imprese dei settori della metalmeccanica hanno programmato un numero di assunzioni che supera i dati pre-pandemia del 2018 e del 2019. Ma per quasi la metà delle assunzioni programmate le imprese dichiarano di incontrare difficoltà di reperimento. E se in passato si trattava di una difficoltà circoscritta a figure specifiche, come alcuni operai specializzati oppure i laureati in discipline scientifiche, negli ultimi anni il problema si è esteso anche alle figure meno qualificate.

In questo quadro, l’industria metalmeccanica ha reagito alla crisi Covid trainata dall’export, nonostante le vertenze storiche restino irrisolte. Da Whirlpool a Electrolux, per parlare di quelle più note, i tavoli di crisi sono ancora lì.

Le vertenze interessano tanto le regioni del Nord quanto quelle del Centro e del Sud: il record (trentotto) spetta alla Campania, a seguire Lombardia (trentacinque), Sardegna (ventinove), Puglia (ventotto) Marche (venticinque), Emilia Romagna (venti) e Friuli Venezia Giulia con diciotto. Nel Lazio se ne contano nove, in Veneto e in Liguria otto, tre in Piemonte.

Sono cinquantuno i tavoli di crisi “storici” al Ministero dello sviluppo economico (oggi delle Imprese e del Made in Italy), su cui governo e sindacati si sono confrontati la scorsa settimana. Ora sono previsti incontri sulle singole realtà aziendali, da Whirlpool alla Blutec, per le quali ormai da anni stentano a decollare piani di reindustrializzazione concreti.

Una considerazione a parte merita l’ex Ilva, oggi Acciaierie d’Italia, che resta lontana dagli obiettivi di una ripresa produttiva e occupazionale. L’ingresso a maggioranza dello Stato, tramite Invitalia, nel nuovo assetto societario di Acciaierie d’Italia, che doveva concretizzarsi a maggio del 2022, è stato rinviato e l’obiettivo di 5,7 milioni di tonnellate a fine anno per il sito di Taranto resta solo sulla carta. A dicembre 2022 sono stati superati di poco i tre milioni di tonnellate. Tra altoforni spenti e altri da rifare, il timore è che i 680 milioni stanziati (come anticipo dell’aumento di capitale del 2024) dal decreto del 2 gennaio scorso finiscano subito.

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